Parigi, la strage e i familiari degli attentatori

I familiari dei terroristi della strage di Parigi si dissociano dagli attacchi. Il fratello di Salah, il jihadista in fuga, lancia un appello affinché si costituisca. Il padre di Samy, kamikaze saltato in aria, aveva provato a riprendersi il figlio in Siria. 

Mohamad Abdeslam, fratello di Salah, ricercato in tutta Europa, e di Brahim, morto suicida al ristorante in Boulevard Voltaire si dichiara estraneo.


Gli attentatori della strage di Parigi hanno quasi tutti un volto, anche per le loro famiglie. Perché al dramma del “nemico della porta accanto”, oggi si aggiunge (anche) quello del “terrorista cresciuto in casa”: figli e fratelli che rinnegano la loro famiglia e i suoi valori per abbracciarne un’altra che gli dà un ruolo, delle armi, perfino dei nuovi valori e infine una missione che, facendoli sentire integrati, li usa semplicemente come pedine. Lo abbiamo visto all’indomani dell'attentato in Tunisia che venerdì 26 giugno ha ucciso 38 turisti all’hotel Imperial Marhaba di Sousse: “sono un padre disperato” dichiarò Hakim Rezgui dopo aver scoperto che l’autore dell’attentato era suo figlio Seifedinne. Lo sanno bene le Mothers for Life: i loro figli sono foreign fighters dell’Occidente istruito e industrializzato e loro, sparpagliate in sette paesi diversi, "lottano insieme per trovare soluzioni e progetti dopo che l'estremismo si è portato via i loro figli". E lo stiamo vedendo di nuovo ora, all’indomani degli attacchi a Parigi.    

I fratelli Abdeslam

Siamo una famiglia aperta - ha dichiarato alla stampa Mohamad Abdeslam, fratello di Salah, il jihadista ricercato in tutta Europa, e di Brahim, morto suicida al ristorante in Boulevard Voltaire -. Non abbiamo mai avuto problemi con la giustizia e i miei genitori sono in stato di choc: non riescono a capire quanto è successo”. In realtà qualche problema l'hanno avuto dal momento che lo scorso 2 novembre la polizia belga ha chiuso il bar di famiglia per spaccio di droga. Tuttavia, arrestato dalla polizia sabato e rilasciato lunedì senza incriminazioni, Mohamad con le stragi di Parigi pare non ha nulla a che fare: ha un alibi di ferro. Quando gli hanno raccontato che il corpo esploso era quello del ragazzo con cui è cresciuto è caduto dalle nuvole: “I miei fratelli si comportavano in maniera assolutamente normale, non ho notato niente di strano” ha dichiarato. 

Con il volto scavato e il sospetto di mezzo mondo appiccicato addosso, di fronte alle telecamere che lo hanno braccato a Molenbeek, il comune di Bruxelles dove si annida la frangia dell’estremismo islamico, Mohamad ha provato a prendere le distanze da chi vuole la sua famiglia complice, se non dell’attentato, almeno della fuga di Salah: “Non sappiamo dove sia mio fratello al momento”, né sapevano che Salah e Brahim fossero a Parigi: “Sono adulti, non chiediamo loro di compilare una scheda ogni volta che vanno via di casa”. Poi prova a scusare la madre, che in una discutibile intervista ha dichiarato che Brahim "non intendeva uccidere nessuno" e che si è fatto esplodere "a causa dello stress". "Dovete capire - si è appellato ai giornalisti Mohamad - che per lei i suoi figli sono soltanto bambini". Infine ci tiene a far sapere che “anche se molti penseranno che sono pazzo, io e la mia famiglia siamo commossi e provati per quel che è successo. Lo abbiamo appreso dalla tv come la maggior parte di voi e non avremmo mai immaginato che uno dei miei fratelli fosse collegato a questi attacchi terroristici”.

Si spinge oltre e al fratello lancia un appello ad arrendersi in un'intervista realizzata  in Belgio da BFM-TV: "Gli consiglio di consegnarsi alla polizia - ha affermato Mohamed -. Siamo una famiglia, pensiamo a lui, ci chiediamo dove si trovi in questo momento, se ha paura, se si sta nutrendo". Tanto più che, se si arrendesse, si potrebbe "fare piena luce su questa storia". Perché il fratello ci tiene a ricordarlo: "Salah non è stato ancora sentito dai servizi di polizia ed è dunque ancora presunto innocente".

Il padre di Abdelhamid Abaaoud

Dopo l’ignaro fratello di Salah e Brahim, ci sono i padri. C’è Omar, quello di Abdelhamid Abaaoud, alias Abou Omar Soussi, l’architetto della strage che ha pilotato il gruppo da Raqqa: “provo vergogna” dichiarò a gennaio, quando venne fuori che suo figlio era considerato il capo della cellula di Verviers. E pianse lacrime amare perché in Siria quel figlio rinnegato ci era andato portandosi dietro anche il fratellino 13enne Younes. Era il gennaio 2014: “Mi dicono che forse sono morti e non so che cosa preferire”, confessò. 

Abdelhamid Abaaoud, l’architetto della strage che ha pilotato il gruppo da Raqqa.

Disse che la sua famiglia doveva tutto al Belgio, che era esausto: “Non ne posso più: le nostre vite sono distrutte”. Chissà quante domande si sta facendo ora Omar, un marocchino arrivato in Belgio negli anni Settanta con un contratto da minatore che ha fatto tutti quei sacrifici per mandare il figlio al College St. Pierre, nei quartieri alti di Uccle. Un figlio perso nella primavera del 2014, quando di lui si vide il video in cui trascinava dei cadaveri attaccati a un fuoristrada. Un figlio che si crede immortale e si faceva beffa degli inquirenti belgi che se l’erano lasciato sfuggire il 15 gennaio, quando fecero irruzione in una casa di Verviers, al confine con la Germania e sgominarono la cellula che comandava.  

Il padre di Samy Amimour

E poi c’è il padre di Samy Amimour, uno dei kamikaze della strage al teatro Bataclan: si chiama Mohammed, ha 67 anni, è un commerciante franco-algerino e in tutti i modi ha provato a salvare quel figlio dalla jihad, invano. Nel dicembre scorso lo ha raccontato a Stéphanie Marteau in un’intervista a Le Monde: era il giugno 2014 quando è partito per la Siria, deciso a riportare a casa suo figlio, il 27enne Samy. Tre settimane di viaggio, dal confine turco-siriano fino a Minbej, 80 chilometri da Aleppo, fino alla bandiera nera dell’Isis. I miliziani gli sequestrano il passaporto e lo accolgono come “una nuova recluta anche se un po’ attempata”. L’incontro, qualche giorno dopo, è glaciale nel caldo infernale del deserto: Samy "era accompagnato da un altro tizio che non ci ha lasciati soli neanche per un attimo. È stato un incontro molto freddo. Non mi ha voluto portare a casa sua, nemmeno mi ha detto come si era ferito (il futuro kamikaze del Bataclan, reduce da Raqqa, camminava allora con le stampelle, ndr.), né se era un combattente".  Niente di niente, un automa a cui è stato fatto il lavaggio del cervello, questo è diventato quel figlio che lo rinnega nel suo ruolo di padre. 

L’uomo prova a convincere i miliziani ma in cambio riceve una carrellata di orrori inflitti ai fiancheggiatori di Assad. Ci rinuncia, riprende il passaporto e fa marcia indietro, sconfitto, a mani vuote. Quel figlio nato nel 1987, che fino al 2012 guidava i pullman della Ratp prima di licenziarsi per seguire un folle destino, tornerà in Francia per fare una strage. Condannando Mohammed a vivere da uomo che, dopo aver perso un figlio, resterà per tutti il “padre del kamikaze di Parigi”.

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