Michelle Obama "prostituta": l'ultimo insulto dell'Isis
L'ultimo insulto dell'Isis arriva per la moglie del presidente Obama, definita "prostituta" dalla penna di Umm Sumayyah Al-Muhajirah, una combattente della Jihad nota per approvare le "schiave del sesso" e per rivendicare un ruolo attivo delle "spose della jihad" nelle esecuzioni.
Le provocazioni fini a se stesse devono, per forza di cosa, trovare di volta in volta un obiettivo più alto, più scandaloso, più forte. Così non fa più meraviglia il fatto che l’Isis abbia deciso di classificare Michelle Obama – la first lady della Casa Bianca, la moglie del nemico numero uno – come “prostituta”. Conviene chiedersi cosa inventeranno la prossima volta questi presunti miliziani di Allah, per fare in modo che si parli di loro. Ha fatto senz’altro bene Michelle a ignorarli, qualunque risposta avrebbe ottenuto come unico risultato quello di amplificare l’insulto. Altrettanto inutile ragionare sul fatto che la provocazione, mescolata nella propaganda urlata della rivista Dabiq si spinga a fare un prezzo: la moglie di Barack Obama non vale “neanche un terzo di dinaro”: come se la prostituzione si potesse valutare sulla scorta di quanto si paga per sfruttare il corpo altrui.
Questo delirio, stampato sotto il titolo Ragazze schiave o prostitute è firmato dalla sedicente “sposa della Jihad” Umm Sumayyah Al-Muhajirah, penna e cervello già conosciuti per la difesa della pratica di rapire giovani ragazze per farne schiave del sesso degli jihadisti e per aver chiesto che anche le combattenti donna possano avere il dubbio privilegio di partecipare alle esecuzioni pubbliche degli “infedeli occidentali”. In veste di boia, si intende.
Delle schiave del sesso s’è occupata di recente l’Onu. Prigioniere appartenenti alle minoranze yazide, turkmene e cristiane vengono costrette a rapporti con i combattenti, che passano di gruppo in gruppo attraverso veri e propri mercati (il “gran bazar delle schiave”, l’ha definito la portavoce dell’Onu, Zainab Bangura, inviata speciale per la violenza sessuale nei conflitti) e di volta in volta sottoposte a interventi chirurgici per la ricostruzione dell’imene. La verginità resta un mito che scalda i jihadisti, e poco importa se è solo un simulacro di verginità, una violenza ulteriore su un corpo già oltraggiato oltre qualunque capacità di immaginazione. Ci sono ragazze che hanno subito 22 interventi di questo tipo.
Non che la vita quotidiana delle donne (secondo i loro criteri) meritevoli di rispetto sotto le bandiere nere, sia rose e fiori. Le ragazze del Califfato possono sposarsi dai 9 anni in su e devono farlo tra i 16 e i 20. Non devono “corrompersi”, per esempio andando al lavoro, ma vivere nascoste e velate. La loro “funzione fondamentale” - così dice la legge del Califfo – è vivere dentro casa con marito e figli. Possono uscire solo per servire la comunità, e solo in casi considerati eccezionali: partecipare alla jihad - la brigata “al-Khansaa”, tutta femminile, combatte da inizio 2014 - oppure studiare la religione. Possono fare il medico - naturalmente per sole donne - o l’insegnante.
Il dramma è che a questa legge da brivido devono obbedire circa otto milioni di abitanti: circa due milioni sono concentrati a Mossul (la terza città dell’Iraq). Sono circa 200 mila, invece, gli abitanti di Raqqa, in Siria. Le governa un gruppo terroristico considerato dagli analisti il più ricco del mondo: si stima che disponga di riserve per 2 miliardi di dollari, guadagnati con l’esportazione più o meno clandestina di petrolio, rapimenti, donazioni in arrivo dall’estero e commercio di reperti archeologici razziati da musei e scavi. Sotto i riflettori di Youtube, Isis recita la parte di chi distrugge tesori dal valore inestimabile per affermare una cultura diversa, nella realtà ruba e rivende sottobanco, ed è facile immaginare che i compratori siano collezionisti (clandestini, perché ovviamente le transazioni sono fuorilegge) reclutati nel tanto odiato occidente. Pecunia non olet neppure là, insomma. Non è difficile temere che cosa accadrà ora che sul città archeologica di Palmyra sventola la bandiera nera dell’Isis.
Da un punto di vista economico, comunque, lo Stato è organizzato così bene da riuscire a incassare tasse da imprese e cittadini. Con quelle paga lo stipendio ai miliziani (circa 500 dollari al mese, per un esercito che dovrebbe contare 60 mila effettivi), e ha una sua moneta che ha sostituito quelle irachena e siriana. Il tutto, come s’è già detto, condito da una propaganda che non conosce soste. L’ultima trovata, la Breve Guida allo Stato Islamico (A Brief Guide to the Islamic State), un pampleth in inglese a uso di potenziali visitatori del Califfato compilata da un foreign fighter britannico, Abu Rumayasah al Britani.
“Chi pensa che si viva di acqua infetta e pane raffermo si sbaglia”, scrive Abu Rumayasah. Che si dilunga nella descrizione minuziosa di un paradiso del quale decanta lo shish kebab, i sandwich di falafel e i cocktail di frutta, oltre ché i gustosissimi cappuccini. Il tour operator della Jihad indugia nel descrivere latte e gelati, il clima mediterraneo degno di un “resort vacanziero” e il fresco delle moschee che salva nelle giornate in cui il caldo si fa davvero torrido. Per non parlare degli abiti coprenti, capaci di proteggere tanto dalle temperature quanto dal peccato. Amenità a parte, il messaggio centra il (suo) obiettivo nella chiusa: quando l’autore della guida spiega che il trionfo del Califfato coinciderà con la fine del capitalismo occidentale. È questo, non le delizie da turista, a spingere migliaia di occidentali ad arruolarsi nelle fila di Al Baghdadi. Questa guida suona come tutto il resto: un po’ bislacca, un po’ patetica, infarcita di bugie e propaganda assurda. Tutto questo non deve però far scendere il livello dell’attenzione – e della sana paura –: la storia è piena di pazzi che hanno mietuto milioni di vittime.
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