Emma Watson, Malala e il femminismo: "un altro modo per dire uguaglianza"

Emma Watson, nelle vesti di ambasciatrice Onu, ha intervistato Malala Yousafzai in occasione del film "He Named Me Malala". Al centro del discorso il femminismo "un altro modo per dire uguaglianza". 

Malala Yousafzai, il più giovane premio Nobel per la Pace, si è fatta intervistare da Emma Watson.


Tra le cose che Emma Watson e Malala Yousafzai hanno in comune c’è il fatto che sono giovanissime (quarantatré anni in due), impegnate per un mondo migliore (ambasciatrice dell'Onu per l’uguaglianza di genere l’attrice americana e Premio Nobel per la Pace la pakistana) e donne. Un dettaglio che nell’intervista andata in scena in occasione dell'uscita del documentario He Named Me Malala (nelle sale italiane dal 5 novembre) fa da colonna sonora, ritorna come un mantra e s’incarna in una parola: femminismo. Cresciute agli antipodi del mondo, le due si sono confrontate davanti alle telecamere, ma in realtà si tengono d’occhio da tempo. Al punto che se oggi Malala si definisce una “femminista” è merito di Emma. 

Emma Watson e Malala durante l'intervista in occasione del documentario sulla vita del Premio Nobel.

Ma andiamo con ordine. Giacca bianca, pantaloni neri e capelli legati l’attrice (qui nelle vesti di ambasciatrice Onu) sonda il ruolo, fondamentale, che Ziauddin, suo padre, ha avuto nella vita e nella consapevolezza della giovane e coraggiosa attivista. “È stato un esempio per tutta la famiglia e per tutti gli uomini”, risponde Malala, con uno scialle blu e bianco a incorniciarle il viso. Prende fiato e spiega perché, con quella sua voce pacata che è riuscita a squarciare trame millenarie, dove le donne non hanno potere e i bambini non hanno istruzione. “Se vogliamo parità, se vogliamo gli stessi diritti per le donne - insiste Malala -, è necessario che gli uomini si facciano avanti”. 

Un mondo più giusto dipende anche da loro, chiamati a farsi un’analisi di coscienza - “Se ci lamentiamo che le donne non hanno raggiunto l’uguaglianza, la parità dei diritti vuol dire che tutte le cose sono in mano agli uomini” - e poi a passare ai fatti, facendo “un passo indietro e dire: siamo qui per dare supporto in modo che non possa accadere che gli uomini pensino che sia solo un compito per donne o per femministe folli cercare di cambiare la situazione. Non deve andare così. Tutti dobbiamo lavorare insieme, è così che il cambiamento avverrà”. 

Se Malala è arrivata a queste conclusioni è perché ha avuto la fortuna di avere un padre che “crede nell’uguaglianza” al punto che “lui stesso si definisce un femminista”. E qui si entra nel punto dell’intervista che più ha toccato l’intervistatrice: “Questa parola, femminismo, è stata una parola molto difficile - spiega Malala -. Quando l’ho sentita per la prima volta, ho notato a riguardo pareri sia negativi sia positivi. E io ho esitato a dire se fossi femminista o meno”. A convincerla, dice il premio Nobel, è stata proprio Emma Watson: “Dopo aver ascoltato il tuo discorso (al Palazzo di vetro delle Nazioni Unite, lo scorso settembre, ndr) quando hai detto: Se non ora quando? Se non io, chi? Ho deciso che non c’è modo e niente di sbagliato nel definirsi una femminista. Io sono femminista e tutti quanti dovremmo esserlo, perché femminismo è un altro modo per dire uguaglianza". 

Emma si commuove, Malala sorride, l’intervista va avanti, e alla fine c’è spazio anche per imprevisti e divertiti siparietti. Come quello in cui è Malala a intervistare Emma. Insomma, così diverse e così uguali, le due giovani donne hanno dimostrato che la lotta per un mondo migliore ha bisogno di tutti perché tutti possono contribuire, ciascuno facendo la sua parte. Ciascuno, tira le somme la Watson in un post su Facebook, mettendo da parte “la paura di definirsi femminista”. Dopo essere riuscita a convincere Malala, Emma punta al resto del mondo. Considerando che di anni ne ha solo 25 (ma di vite vissute almeno sette), l’idea che possa riuscirci per davvero non è così remota. “Se non ora quando? Se non io, chi?”.



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