Jeff Bezos: "Non lavorerei in Amazon" (se fosse quella descritta dal NYT)
Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, replica all'inchiesta del New York Times che descrive un'azienda dalla "selezione darwiniana” con un'email ai suoi dipendenti: "o stesso lascerei una compagnia del genere”.
Amazon è un mondo a parte, fatto per i migliori, dove nessuno si ferma a raccogliere chi rimane indietro. Anzi, chi non ce la fa viene eliminato in una "selezione darwiniana”. Il ritratto uscito sul New York Times ha descritto un’azienda famelica, che pretende dai suoi dipendenti settimane da 80 ore (che spalmate dal lunedì al venerdì significano giornate da 16), che penalizza chi si ammala o chi vuole un figlio e che chiede agli amazoniani di denunciare i colleghi reticenti, lamentosi, insoddisfatti, fagiani o pigri.
Insomma, uno scenario (da incubo) dipinto grazie alle (oltre) cento interviste a ex e attuali dipendenti, che - c’era da aspettarselo - ha fatto arrabbiare (e parecchio) Jeff Bezos, il fondatore del colosso dell’e-commerce da 250 miliardi di dollari che, il giorno dopo, ha inviato un’email a tutti gli amazoniani, rassicurandoli: “Non è l'Amazon che io conosco, chiunque lavori in una compagnia come quella descritta dal New York Times sarebbe pazzo a rimanere". E ancora: “Io stesso lascerei una compagnia del genere”. Perciò, “invito a segnalarmi episodi di questo tipo, se mai dovessero accadere”. Visto il clima, c’è da scommettere che i delatori ci penseranno su, prima di farsi avanti.
“L’azienda sta conducendo un esperimento per capire quanto può pressare gli impiegati per soddisfare le sue sempre ambizioni sempre più grandi” esordisce in NYT presentando l’azienda dove “i dipendenti sono incoraggiati a distruggere le proposte dei colleghi durante le riunioni, le mail vengono inviate dopo mezzanotte con a seguire un sms che chiede perché non si è risposto”. Un ex direttore delle risorse umane non esita a tirare in ballo "un deciso darwinismo" in cui i deboli alla fine se ne vanno o vengono cacciati. "Ho visto piangere praticamente ogni mio collega - racconta Bo Olson, un ex amazoniano di Seattle -, uscivi da una riunione e vedevi un uomo adulto che si copriva il volto". Per non parlare della donna costretta a partire il giorno dopo aver subìto un aborto spontaneo o di quell’altra, in cura per un tumore al seno, esortata a fare meglio e di più per non perdere il posto.
Tutt’altra aria rispetto a quella che si respira da Google o Facebook, dove nelle pause si gioca a ping pong: in Amazon si consiglia uno stile spartano (scrivanie sgombre, spese di viaggio e telefono a carico dei dipendenti, niente buoni-pasto). Se proprio non possono fare altrimenti possono portarsi il cane (sempre che sia gradito al vicino di banco, s'intende).
Il fatto è che non basta essere efficaci ed efficienti, bisogna anche essere sorridenti, altrimenti si rischia uno (o più) feedback negativi: la competizione è sfrenata, gli amazoniani si recensiscono tra loro grazie a un apposito widget, chiamato Anytime Feedback Tool e alla fine dell’anno chi sta in coda va a casa, in pieno stile reality show. Lo sa bene Elizabeth Willet che prima di entrare in Amazon è stata un capitano dell’esercito in Iraq: rimasta incinta, ha concordato un orario di lavoro dalle 7 alle 16.30 e il resto della giornata da casa. Una formula che i suoi colleghi non hanno gradito. Risultato: una pioggia di feedback negativi l’ha convinta a cercare un altro lavoro.
"Questa è una società che si sforza di fare davvero grandi cose, rivoluzionarie. Queste cose non sono facili", ha spiegato al NYT Susan Harker, top recruiter di Amazon. “Se vuoi la luna devi sparare in alto, il lavoro è una sfida continua. Per qualcuno questo non va”. Sottoscrive e conferma Bezos nell'email del giorno dopo: “le persone che lavorano in Amazon sono le migliori tra le migliori. Persone cercate dalle migliori aziende del pianeta e che possono lavorare in qualsiasi posto vogliano”. Tradotto: se non gli va quella è la porta.
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