Molestie sessuali: confermati 5 anni di carcere all’ex fonico dei Modà
La Corte d'Appello di Milano conferma la condanna a Paolo Bovi. Cinque anni e mezzo di reclusione per l'ex fonico (e fondatore) dei Modà che è stato riconosciuto colpevole di molestie sessuali verso quattro adolescenti ai quali faceva da educatore in un oratorio dell'hinterland milanese.
La prima sezione penale della Corte d’Appello di Milano ha condannato Paolo Bovi a cinque anni e mezzo di carcere confermando la sentenza emessa in primo grado all’ex fonico dei Modà. L’accusa di molestie sessuali risale a fatti avvenuti nel 2011 su quattro ragazzi di età compresa tra i 13 e i 16 anni nel periodo in cui il fondatore (ed ex fonico) dei Modà era educatore in un oratorio nell’hinterland milanese. I giudici, sostanzialmente, hanno confermato la sentenza, emessa lo scorso 10 ottobre con rito abbreviato, del gup di Milano Franco Cantù Rajnoldi riconoscendo ai ragazzi, assistiti dagli avvocati Monica Borsa e Ilaria Scaccabarozzi, anche un risarcimento economico.
Fin qui i fatti, raccontati con il linguaggio freddo e impersonale della legge che siamo abituati a sentire pronunciare, con tono spesso privo di emozioni, nelle aule di tribunale.
Ma come rimbombano, queste stesse parole, nelle camerette di chi, a cavallo tra la terza media e la prima superiore, vive una molestia sessuale? Che impatto hanno delle simili frasi per chi, quel molestatore, lo considerava un fratello grande, un esempio, un’emanazione terrena dello scintillante paradiso dello star system? Cosa significa una condanna del genere per quei genitori che accompagnavano, con tutta la serenità del mondo, i loro figlioli alla partenza del campo estivo organizzato dall’oratorio?
Le vittime, a far capire il secondo significato, ci hanno provato. Ci hanno provato ricordando che non erano “in grado di dire no perché ho sempre seguito i suoi consigli anche in campeggio e gli sono sempre andato dietro: non era uno sconosciuto ma lo sentivo come un fratello grande del quale fidarmi ciecamente”. Una fiducia cieca che, però, ha lasciato il posto a una bruciante consapevolezza e alla sensazione del tradimento, un tradimento consumato attraverso quelle pratiche che venivano avvolte nella cornice del gioco dove “il gioco” era uno spogliarello affrontato con l’ausilio di bicchieri, bicchieri, bicchieri e ancora bicchieri di rum. Un gioco che, finalmente, è finito. Un gioco che, lo sa anche Paolo Bovi, non è un gioco: è una malattia.
“Sono malato da tantissimo tempo, per quello che riesco a ricordare già dalle scuole medie – scriveva infatti lui nella lettera ritrovata a marzo e dopo aver scritto la quale ha tentato (senza successo) di suicidarsi - Sono sempre stato un bambino sensibile, dolce e sincero e ho sempre creduto che ogni cosa che dicevano papà e mamma erano la verità. Per me quello che mi dicevano i miei genitori era la cosa più importante sono sempre stato buono e volevo conoscere il mondo come tutti”.
Chissà se le sue vittime, malgrado la sentenza, questo mondo “come tutti” lo conosceranno mai.
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