La baby gang col machete: il capotreno è fuori pericolo
Il capotreno è stato aggredito con un machete su un treno in arrivo da Expo2015. Fermati due ragazzi, gli accertamenti sono in corso. Il problema delle baby gang di latinos, le "pandillas" è una realtà con cui l'Italia fa i conti da anni.
Lui è un capotreno, ha circa trent’anni. Loro sono tre, forse cinque, ragazzi di una baby gang sudamericana. I loro destini si sono incontrati la sera del 12 giugno, sul treno che arrivava da Expo2015: il giovane in divisa gli ha chiesto il biglietto, loro hanno tirato fuori un machete e gli hanno quasi staccato un braccio che all’Ospedale Niguarda di Milano sono riusciti a salvare dopo un’operazione durata tutta la notte. Un ferroviere è accorso per aiutare il collega e ora è ricoverato con un trauma cranico.
Dei ragazzi sudamericani - che farebbero parte di gang di latinos - si sa poco. Sono scappati, solo due di loro sarebbero stati fermati e al momento sono in Questura, a Milano, sotto il torchio degli inquirenti. Hanno le magliette sporche di sangue, uno dei due era già noto alle forze dell’ordine ma il condizionale è d’obbligo perché ancora non è chiaro se sono sospettati di qualcosa. Molto diranno i filmati dell'impianto di videosorveglianza del vettore ferroviario e i risultati del test sul dna prelevato dagli indumenti macchiati.
"Si è trattata di una lesione molto grave ma il braccio per il momento è salvo", confermano dall'ospedale di Niguarda. "Si è cercato di preservare la funzionalità dell'arto ma solo nei prossimi giorni si potrà sciogliere la prognosi se tutto è andato a buon fine".
Negli ultimi anni le “pandillas” o le “maras”, come vengono chiamate le bande dei giovani latino-americani trapiantati in Italia, sono diventate un problema in diverse città. Ragazzi arrivati che erano ancora dei bambini dall’Ecuador, dalla Colombia, dal Perù, dal Salvador. Che sbarcati dalle calle alle strade si sono armati di mazze da baseball, coltelli e ora anche machete. A Genova ci fanno i conti dalla fine degli anni Novanta, quando per primi gli ecuadoriani sono arrivati in massa sull’onda di una feroce crisi economica, politica e sociale che ha destabilizzato il paese. Oggi sono la comunità straniera più numerosa e hanno fondato, prima nel centro storico, poi verso Ponente, le gang-nazioni ispirate alle città di provenienza: un fenomeno non facile da gestire, tanto che perfino la Cnn gli ha dedicato un servizio.
“Le organizzazioni di strada sono un insieme di persone che si uniscono per resistere a un contesto ostile; diventano uno strumento per resistere, per migliorare la propria vita, per rinforzare il proprio benessere rispetto a una situazione deprivante” ha spiegato Massimo Cannarella, ricercatore nel progetto europeo Transnational Research on European Second Generation Youths (TRESEGY), presso il Dipartimento di Scienze Antropologiche dell’Università di Genova, che ha dedicato uno studio sui giovani migranti latinoamericani. “Questi gruppi, è inutile nasconderlo, utilizzano anche la violenza come mezzo di affermazione e di comunicazione ed è l’aspetto più evidente della loro esistenza”.
Molti ragazzi hanno alle spalle un “triplo abbandono”: il primo, il più duro, da parte della madre quando li ha lasciati per venire a lavorare in Italia; il secondo dai familiari, quasi sempre le nonne con cui sono cresciuti; infine il terzo, quando arrivano in Italia e si ricongiungono con una famiglia che non riconoscono più, che magari nel frattempo si è allargata e che ha abitudini completamente diverse e poco tempo da dedicargli.
“Appena arrivano in Italia, i figli degli immigrati non solo non conoscono il nostro Paese ma neanche i propri genitori”, ha spiegato a Terre di Mezzo Gabriela Sbiglio, psicologa argentina che a Milano organizza gruppi di terapia composti da 4 o 5 donne latinoamericane. “Alle mamme dico sempre che devono partorirli una seconda volta, ricucendo lo strappo della loro partenza”. Uno strappo che gli strappa l’animo e che l’altra sera, su un treno a Milano, ha quasi strappato un braccio a un ragazzo che stava facendo il suo lavoro.
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