Australia: giovani migranti italiani trattati come schiavi

Australia: i giovani migranti italiani con il permesso di lavoro stagionale sono trattati come schiavi nelle campagne del Queensland. Nel 2014 ci sono state 250 denunce. L'inchiesta dell'Abc  ha svelato al mondo un cono d'ombra vergognoso.  

L'inchiesta dell'Abc “Sgobbare: gli sporchi segreti dietro il cibo fresco” ha sbattuto in faccia al paese la cruda realtà fatta di abusi.


La valigia di cartone è un ricordo dei nonni, il biglietto di sola andata è il presente dei nipoti. Hanno una laurea in tasca, nessun lavoro in mano e una vita da vivere: l’Australia, dove il Pil cresce del 4% all'anno e la disoccupazione resta sotto il 5, sembra tutta un'altra storia.  Sembra, perché poi è tutta un’altra storia, sì, ma non quella che s’immaginava all’aeroporto.

Un’inchiesta lunga 45 minuti dal titolo “Sgobbare: gli sporchi segreti dietro il cibo fresco” trasmessa nel programma Four Corners della tv australiana Abc ha sbattuto in faccia al paese la cruda realtà. Quella di uno Stato che per 3,95 dollari l’ora sfrutta, senza pudore, le braccia straniere nelle campagne  del Queensland. Undici ore al giorno a raccogliere cipolle o vendemmiare o allevare polli. Giovani orientali, in gran parte, ma anche tanti, tantissimi italiani partiti con le migliori speranze. Solo nel 2014, quelli che si sono ritrovati a vivere in condizioni di vero e proprio schiavismo nelle farm australiane sono stati 250. Certo, gli italiani in Australia sono 11mila e non tutti stanno nelle campagne ma il rischio di fare la stessa fine dei braccianti che il loro paese, quello da cui sono partiti, sfrutta senza (troppa) vergogna, non è così lontano.  

Anche perché molti sopportano in silenzio, per non perdere il preziosissimo permesso di soggiorno, il biglietto della nuova vita che, si dicono, inizia nelle campagne, con un lavoro stagionale ma poi, una volta superate le severe leggi australiane sull’immigrazione, migra in città, magari in un ufficio in un grattacielo. Ma anche a quel punto, la vita è tutt’altro che rose e fiori. Lo sa bene Giorgia Breglia, trentenne milanese che ci ha messo un po’ prima di capire che l'Australia non era la Terra Promessa. Lei a Sydney ci è arrivata quando ancora studiava, poi è entrata in uno studio grazie a uno stage, finito lo stage si è rimboccata le maniche: "in quattro mesi ho sostenuto novanta colloqui. Ho abbassato le pretese ogni volta, alla fine ero disposta a fare di tutto. Ma quando è troppo è troppo: lavoravo come una schiava per uno stipendio da fame. Alla fine sono tornata a casa (dei miei genitori), con le pive nel sacco: avevo dei sogni nel cassetto, voglio realizzarli non buttarli via dall’altra parte del mondo”. 
 
Gli europei che hanno sbottato dando vita all’inchiesta, sono sempre di più. Tanto che nel documentario dell’Abc, a un certo punto, uno dei datori di lavoro, incalzato e sorpreso dalle telecamere esclama: “Mai più lavoratori europei”. Una bella magagna per il governo australiano che ora è finito al centro di un putiferio mediatico. Il ministero dell’immigrazione ha provato a mettere una pezza, consigliando ai migranti di rivolgersi “ai mediatori giusti”, e come sempre si è rivelata peggio del buco. tanto più che il governo si è rifiutato d’istituire una task-force internazionale per fare chiarezza. 

Ma l’Australia non è la sola a non (ben)volere gli italiani. A gennaio era stata la volta del Regno Unito, quando il premier David Cameron, che nell’ormai lontano 2010 aveva annunciato un piano per ridurre l’immigrazione a meno di 100mila arrivi all’anno e poi si è ritrovato a fare i conti con i 228mila europei sbarcati Oltre Manica in cerca di lavoro. Italiani inclusi: circa 44mila, solo nel 2014, secondo gli ultimi dati dell’Office for national statistics. Ovvero il 66% in più rispetto all’anno precedente: numeri che superano quelli degli altri emigrati sudeuropei.  Italiani che - secondo i dati dell’ambasciata italiana - nel 60% dei casi hanno meno di 35 anni, nel 25% fra i 35 e i 44 e che, secondo l’aggregatore di annunci di lavoro reed.co.uk, sono aumentati del 300% in quattro anni. Italiani che, con l'eleganza inglese, non vengono certo trattati come schiavi ma dipinti (sempre di più) dai media e pure dai politici, alla stregua delle cavallette

Va detto: gli italiani sono ottavi nella classifica del numero di imprenditori stranieri nel Regno Unito e nella Tech City di Shoreditch, la Silicon valley in salsa inglese, la lingua del BelPaese è tra le più parlate ma per capire che anche nel Regno Unito gli italiani (spesso) fanno i lavori che fino a un paio d’anni fa si accaparravano immigrati dell’est Europa basta entrare in uno Starbucks: due volte su tre c’è un italiano a servire. Altro che manna: bassa paga oraria, turni flessibili, niente mance. A tutto ciò il premier Cameron vuole mettere un freno, dopo aver annunciato il piano per modificare l’accesso ai benefit, i sussidi dello stato: i cittadini europei potranno chiederli solo dopo aver vissuto, lavorato e pagato le tasse in Inghilterra per quattro anni. E se dopo sei mesi ancora sono disoccupati, tutti a casa.  

Certo, le condizioni di lavoro in Gran Bretagna non sono certo quelle che toccano gli emigrati in Australia ma la Terra Promessa è decisamente un’altra cosa. Forse la Terra Promessa, a ben vedere, non c’è mai stata. A sentire i racconti di quei nonni partiti con la valigia di cartone, si ascoltano parole come fatica, lavoro duro, sacrificio. Forse è solo che oggi se ne parla, di quello che è disumano, che è già un’inizio. L'importante (e vale anche per l'Italia che accoglie) è che poi alle parole seguano i fatti.

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