Raif Badawi, il blogger saudita condannato a 1000 frustate e 10 anni di carcere
Raif Badawi, blogger saudita, è stato condannato a 10 anni di carcere e 1000 frustate. La Corte Suprema di Riad ha confermato la condanna: 50 colpi, ogni venerdì, per i prossimi 19. Ensaf Haidar, la moglie rifugiata in Canada insieme ai tre figli: "Agli occhi dei sauditi mio marito è più pericoloso dell'Isis".
Cinquanta frustate a settimana, da infliggere pubblicamente, nella piazza di fronte alla moschea al Jafali di Gedda, tutti i venerdì, fino ad arrivare a mille. E poi dieci anni di carcere e una multa da un milione di riyal, poco meno di 240mila euro. Eccola la condanna inflitta da Riad a Raif Badawi, il 31enne dagli occhi grandi e chiari, colpevole di aver pubblicato dal 2008 al 2012 sul suo blog, Saudi Free Liberals Forum, dissertazioni che raccontano un modo di vivere senza Dio. Un ateismo liberale, secolare, che il tribunale religioso dell’Arabia Saudita non ha gradito per niente: prima l'ha zittito, poi, il primo settembre 2014, l’ha condannato per apostasia. Una condanna atroce perché 7 giorni non bastano a far cicatrizzare le frustate.
Ensaf Haidar, la sua giovane moglie che dal 2013 vive da rifugiata insieme ai loro tre figli in Canada, l’ha ripetuto ai quattro venti: “Mio marito non sopravviverà”. Ha tentato di tutto, Ensaf, piccolina, i capelli lunghi, un paio di occhiali e un coraggio e un amore grandi così. Ha aperto pagine Social, ha organizzato conferenze, sit in, ha mantenuto i rapporti con le associazioni viaggiando da una città all'altra. Oggi, l'8 giugno 2015, il giorno dopo la notizia della condanna, si è lasciata andare: "Alla fine, agli occhi dei sauditi, mio marito è più pericoloso dell'Isis". Una battaglia che Ensaf ha combattuto da lontano, da sola, senza l'appoggio della famiglia di Raif. Anzi, osteggiata: mentre lei agitava le coscienze, suo suocero andava in tv ma non per difendere il figlio, bensì per diseredarlo. È questo il dramma dell'Arabia Saudita: uno scontro inconciliabile capace di schierare padri e figli sulle rive opposte di un fiume d'incomprensioni. Un fiume che ora ha il colore del sangue.
L'Occidente non può che fare da cuscinetto: dopo le prime 50 frustate, inflitte venerdì 9 gennaio, si è mobilitato in massa. Amnesty International ha lanciato una petizione per la sua scarcerazione, i media di tutto il mondo hanno raccontato la sua storia, Raif Badawi ha ricevuto decine di premi giornalisti. Poi l’attentato a Charlie Hebdo ha smosso le coscienze e gli ottimisti ben speravano. Ma non c’è stato niente da fare, la Corte Suprema di Riad ha confermato la sentenza: Raif Badawi è condannato ad inginocchiarsi a un agente che lo frusterà ancora e ancora, in mezzo accerchiato da una folla che urla “Allah-hu Akbar”.
Una folla da cui il giovane Raif classe 1984 è distante anni luce. Lui che il 17 giugno 2012, pochi giorni prima del suo arresto scriveva: “Il liberalismo per me significa semplicemente vivere e lascia vivere”. Lui che non aveva paura di dire che “Nessuna religione ha mai avuto alcuna connessione con il progresso civile dell’umanità. Non è colpa della religione ma del fatto che tutte le religioni rappresentano una precisa particolare relazione spirituale tra l’individuo e il Creatore”. Lui che, come ha testimoniato Human Rights Watch, ha criticato "figure religiose di alto livello" e si è permesso di suggerire che l’Università di Riad, l’Imam Muhammad ibn Saud Islamic University, fosse diventata "un covo di terroristi".
Affermazioni che l’Arabia Saudita che fa i conti con (pochi ma tenaci) oppositori descritti da Brian Whitaker in Arabs without God non può lasciare impunite. Mettere a tacere il Giordano Bruno dell’Islam che metteva nero su bianco “appena un pensatore inizia a rivelare le sue idee arrivano centinaia di fatwa che lo accusano di essere un infedele solo perché ha avuto il coraggio di discutere i temi sacri”, che osava proporre “il secolarismo” che “rispetta tutti e non offende nessuno (…) la soluzione pratica per far uscire i paesi, compreso il nostro, dal terzo al primo mondo” e citava Albert Camus - “il solo modo di relazionarsi a un mondo non libero è essere così assolutamente libero di vivere la vita come ribellione” - è una questione di sopravvivenza.
Altrimenti, in molti temono senza dichiararlo, il rischio che accada quello che Badawi scriveva quand’ancora era un uomo libero - “temo che i pensatori arabi emigreranno in cerca di aria fresca per sfuggire alla spada delle autorità religiose” - diventa sempre più vicino. I giudici dovrebbero però considerare anche l’effetto boomerang che, in un mondo iperconnesso, potrebbe sortire effetti inaspettati. In Germania, i suoi ultimi messaggi pubblicati nel volume “1000. Lashes: Because I Say What I Think” (1000. Frustate: perché dico quello che penso), passano di mano in mano, di schermo in schermo.
Per le prossime 19 settimane, Badai dovrà piegare la schiena e sopportare altre 950 frustrate. Forse non riuscirà più ad alzarsi, forse diventerà un martire. Forse le sue parole, anche se cancellate dalla rete, anche se combattute con le frustate, il carcere e l'umiliazione, riusciranno a squarciare la ragnatela che incastra menti convinte di poter chiamare "giustizia" simili barbarie.
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