Schiave ISIS: i racconti delle vittime [ESCLUSIVO]
Liberate dagli artigli dello Stato Islamico le schiave yazide raccontano, in un reportage esclusivo pubblicato su Le Figaro, la follia psicopatica degli jihadisti.
La tragedia degli yazidi è senza fine: tante schiave dell’ISIS sono ancora prigioniere nell’inferno di Moussoul, dove le bambine di meno di 10 anni vengono violentate durante la prigionia e i bambini soldato, loro coetanei, sono arruolati nei “Cuccioli del Califfato”. Questi piccoli e fragili prigionieri, però, hanno un punto comune: nessuno di loro riesce a superare il trauma della schiavitù. Liberati a fronte di un riscatto o evasi, i yazidi – o, perlomeno, i più “fortunati” tra loro - languono nei campi per sfollati del Kurdistan iracheno. L’inviato speciale a Zakho di Le Figaro li ha incontrati nel campo di Darkar, nelle vicinanze della frontiera turca e siriana, e nell’ospedale di d'EliseCare, l’ONG francese che viene loro in aiuto. Ecco cosa ha visto. E sentito.
Nassan: “Cucciolo del Califfato”
Nassan aveva 14 anni quando è stato rapito dall’ISIS nell’agosto 2014 con sua madre, Gulay, all’epoca 34enne, le sue due sorelle più piccole e i suoi tre fratellini. Alla sua età si cresce in fretta quando la scelta è tra morire o scegliere la strada, già scritta, della “sopravvivenza”. Una sopravvivenza che ha un prezzo altissimo, ti trasforma in un bambino soldato. Detenuto in una prigione senza sbarre, dalla quale non poteva fuggire, il giovane uomo “apparteneva” a un jihadista iracheno di Mossoul, un “maestro” convinto che i yazidi, questo popolo che adora un unico Dio e pratica riti millenari, fossero adoratori del diavolo. Una credenza, questa, portata dall’Islam in una regione dove nascere in una minoranza rappresenta un fardello che si porterà per tutta la vita. Emarginati tra gli emarginati i yazidi subiscono massacri e persecuzioni da secoli e rappresentano la feccia dell’umanità (anche) secondo l’ISIS e i suoi sostenitori, che attaccano i yazidi convertendoli a forza o distruggendoli. Gli uomini vengono uccisi, le donne e i bambini rapiti. Un’ecatombe che le Nazioni Unite hanno etichettato “genocidio”. Qualcuno si salva grazie all’intervento dei nazionalisti curdi del PKK, accorsi in Sitia e in Turchia, o grazie all’aviazione americana. Nassan, però, non ha avuto questa fortuna.
Prigioniero a Mossoul, è stato deportato con la sua famiglia in Siria e, allo scadere dei sei mesi, il suo maestro, stufo dopo le lunghe e continue violenze sulla madre, ha venduto la sua preda e i suoi figli a un mercante di schiavi che stava organizzando quattro pullman con la sua mercanzia umana, direzione Raqqua, il feudo dell’ISIS. Lì, Nassan è stato separato dalla famiglia. Ha detto addio alla madre, ceduta a un nuovo proprietario, e ha raggiunto i “Cuccioli del Califfato”, la fabbrica dei bambini soldato dell’ISIS che trasforma bimbi e adolescenti in animali da guerra. Nassan s’impegna, “ci avevano promesso – dice oggi - che, dopo le lezioni, saremmo stati uomini liberi”. Non è stato così.
Nassan, l'eroe
Sei mesi dopo, il “cucciolo di leone” viene affrancato e incorporato in un’unità combattente. “Ero uno jihadista tra altri jihadisti ma cercavo dappertutto la mia famiglia. Era la mia ossessione. Mi mancava mia madre”, ricorda. All’inizio del 2016, la sua ricerca passa da Palmira, dove l’ISIS è minacciato dai ribelli dell’Armata Siriana libera (ASL). Cammina, l’arma nella bandoliera, attraverso le strade della antica città, interroga gli abitanti fino al giorno in cui incontra, per caso, uno dei suoi fratelli, uscito per fare una commissione. La famiglia si trova nelle grinfie di un certo Abou Hamad, uno jihadista. Sua madre, i suoi fratelli e sorelle occupano il piano terreno della casa dei maestri. Abou Hamad è installato al primo piano con sua moglie e i suoi figli. Il jihadista violenta e percuote regolarmente la sua cameriera e picchia sua moglie alla minima occasione. I figli della coppia vengono trattati come piccoli schiavi. Nassan assedia Abou Hamad per liberare i suoi. “Andavo a trovarlo tutti i giorni. Voleva 35mila dollari di riscatto e io non avevo soldi. Non ne voleva sapere. Ho finito per trascinarlo davanti ad un tribunale della Sharia a Raqqa” racconta Nassan. Ancora una volta si rifà al diritto islamico per incastrare i jihadisti con il loro stesso gioco. “Sono musulmano, membro dello Stato Islamico! Ho il diritto di vivere con mia madre!”, argomenta. Un “magistrato” emette un verdetto a suo favore. Il giovane è un “uomo libero” affiliato all’organizzazione e dunque può, in virtù della Sharia, recuperare la sua famiglia. Il maestro viene condannato a restituire i suoi schiavi, ma può trattenere la più grande delle ragazze, dodicenne. La giovane, che appartiene alla moglie di Abou Hamad gli rimane con la facoltà di violentarla a piacere. Nassan continua a lavorare per i jihadisti preparando l’ultima tappa del suo piano: la fuga dalla Siria. Contattato via cellulare attraverso le filiere del governo del Kurdistan iracheno, un personaggio si incarica delle operazioni. Il gruppo abbandona clandestinamente Raqqa nel mese di dicembre affrontando un’avventura verso la libertà: il primo check point dei curdi siriani dell’YPG, gruppo siriano del PKK turco.
Quindici giorni dopo riesce a salvare nello stesso modo Saleh, uno dei suoi amici jihadisti di origine yazita incontrato alla scuola dei “cuccioli” del califfato che è riuscito, pure lui, a ritrovare la sua famiglia. Oggi i “fratelli gemelli” si rivedono regolarmente in un campo profughi nei dintorni di Zakho, nel Kurdistan iracheno. Nassan ha iniziato ad imparare l’inglese grazie ad un vecchio dizionario. Saleh ha saputo della sparizione di suo padre e dell’omicidio di suo fratello durante il massacro di Kocho, Gulay, la madre di Nassan, ha ritrovato suo marito ma si dispera per la figlia ancora prigioniera a Raqqa. “Ancora un mese fa, quello sporcaccione di Abou Hamad reclamava ancora 35mila dollari per la sua liberazione, in un messaggio audio postato su una rete sociale. Noi non abbiamo i mezzi per pagare. Il suo cellulare è spento fin dall’inizio della battaglia di Raqqa”. Seduto al suo fianco, uno dei figli si agita. Con un movimento brusco, tende un braccio verso sua madre e fa il gesto di spararle in testa.
Lo stupro delle ragazze di Koda, la donna in nero
Koda ha 30 anni ma ne dimostra 60, accanto a lei ci sono Galia di 7 anni e Marwa di 6, silenziose e prostrate. Le due bambine – così come la loro mamma - sono state violentate, ancora e ancora, per mesi e mesi. Adesso Koda parla, non si nasconde più, e lo fa perché – dice - non ha più un onore da difendere. “Abbiamo vissuto il peggio con i miei due ‘maestri’, un saudita e un tunisino. Abusavano delle piccole e le picchiavano con un fucile se facevano rumore, come fanno tutte le bambine alla loro età. Ho pensato di suicidarmi, ma non potevo lasciarle sole. A Raqqa eravamo moltissime a vivere la stessa schiavitù”. Koda è stata venduta sei volte in Siria e, per qualche centinaio di dollari, è passata di mano in mano. Poi è stata salvata. Un jihadista, avendo bisogno di denaro, ha postato la sua foto su Whatsapp chiedendo 23mila dollari per lei e le sue bambine, suo cognato ha fatto una colletta e ha messo insieme la cifra salvandola dopo 17 mesi d’inferno. Da allora, vestita di nero dalla testa ai piedi, vaga per il campo di Darkar Ajam: “Il nero è il colore della tristezza, è il colore del mio cuore. Non ho nulla, non sono nulla, non ho presente, non ho futuro. Ho solo le mie bambine, ho solo le mie bambine distrutte”.
Lo sguardo folle della piccola Asma
Ex prigioniera, Nadira, 42 anni, ha custodito le pecore dello Stato Islamico in un piccolo villaggio sciita vicino a Tall Afar, un bastione dello Stato islamico vicino alla frontiera siriana. Ha partecipato con i suoi figli a una evasione di massa nell’aprile 2015. Il gruppo composto da una quarantina di persone è riuscito a sfuggire alla rete. Nadira aveva tagliato i capelli di sua figlia, che all’epoca aveva 8 anni, e l’aveva vestita da ragazzo per farla sfuggire a uno stupro immediato e certo in caso di arresto. A distanza di due anni, la ragazzina non riesce a riprendersi dagli orrori dei quali è stata testimone. Asma ha lo sguardo inquieto degli animali cacciati. Gli occhi si muovono spasmodicamente o si fermano a fissare un punto invisibile. Completamente muta. “Non vuole parlare. Si nasconde spesso in un angolo e piange in silenzio, ma la notte è la follia” commenta la madre. Nadira si dispera per due sue figlie ancora in mano allo Stato Islamico. Non ha notizie di una, che aveva quindici anno quando è stata presa. La seconda, Eyam, ventenne, è prigioniera di un jihadista di nome Abou Khatab in una zona a ovest di Mosul, ancora sotto il controllo dello Stato Islamico.
Centinaia di donne yazite sono ancora prigioniere a Mosul, Raqqa e nelle zone sotto il giogo dell’organizzazione. Nadira, Koda, Parwin e Gulay non torneranno presto nei loro villaggi del Sinjar. Il settore è in gran parte liberato ma il feudo jihadista di Tall Afar, una città strategica sulla direttrice tra Mosul e la Siria, non è ancora stato ripreso. L’instabilità è grande in questa area del Nord dell’Iraq, situata per la sua posizione geo-strategica tra l’Iraq, la Siria e la Turchia nel cuore di un grande gioco tra le potenze regionali. Le autorità del governo federale del Kurdistan iracheno e il potere centrale di Bagdad si contendono il territorio. I peshmerga kurdo-iracheni combattono contro i loro fratelli nemici kurdi del PKK turco-siriano mentre le milizie sciite legate all’Iran si sono installate nei paraggi. Gli yaziti hanno formato dei gruppi paramilitari. Alcuni hanno raggiunto il PKK che li ha aiutati nel 2014. Questo cocktail esplosivo assai probabilmente ritarderà il rientro dei profughi. Ma soprattutto rischia di trascinare questa comunità in un conflitto nel quale proprio lei sarà la prima vittima.