Immagini di guerra: gli scatti delle fotoreporter in mostra a Torino

Le immagini di guerra catturate da 14 fotoreporter sono in mostra a Torino dal 7 ottobre al 13 novembre: donne "In prima linea" che ci restituiscono squarci di realtà che vanno conosciute.

La madre di un ragazzo ucciso dall'esercito, una delle immagini di guerra in mostra a Torino. © Maysun

Ci sono le immagini della guerra per le strade e quelle di chi la guerra la vive dentro le mura di casa; dei feriti e dei morti, dei genitori disperati, dei manifestanti in piazza, dei soldati al fronte, dei profughi al confine, dei malati negli ospedali, dei paesaggi distrutti. Immagini dalla Siria, dall’Iraq, dall’Afghanistan, dalla Palestina, dalla Turchia, dall’Ucraina, dall’Egitto, dalla Sierra Leone e dalla Repubblica Centroafricana. Immagini scattate da donne, fotoreporter, In prima linea, per citare il titolo della mostra che espone i loro scatti nel torinese Palazzo Madama, dal 7 ottobre al 13 novembre 2016. 

Donne in guerra: la paura e il rispetto

Anche se loro, le 14 fotoreporter in mostra, preferirebbero evitare di sottolineare il fatto di essere donne, è imprescindibile il magnetismo che il loro far parte del gentil sesso esercita su chi ha la fortuna di guardare dentro quegli scatti. “Non è una questione di visione femminile o maschile”, dichiara una emozionantissima Andreja Restek, la fotoreporter di origine croata che prima ha immaginato e poi realizzato la mostra. “Più che altro è una questione di rispetto”, aggiunge, laddove per rispetto intende quello che ogni fotoreporter deve avere di fronte alla realtà e di fronte a se stesso. Di fronte al dolore degli altri, anzitutto, “una grande tristezza che, però, non può mai trasparire” e di fronte alla paura, che sebbene non emerga mai allo scoperto, “è la mia più fedele compagna: quando non ne avrò più smetterò di fare questo lavoro, è grazie alla paura se so quando devo fermarmi”.

La paura è la compagna più fedele delle fotoreporter. © Laurece Geai - RCA

Una paura che loro affrontano tutti i giorni, da vere combattenti: “non è semplicemente un mestiere, è uno stile di vita” spiega Maysun, fotogiornalista e documentarista ispano-palestinese con base in Kenya che nella vita voleva diventare un’archeologa e oggi vende le sue foto a testate del calibro del Time, del New York Times e del The Guardian solo per citarne alcune: “non l’ho scelto io: è questo mestiere che mi ha scelto. Mi sono trasformata nel veicolo di ciò che i miei occhi privilegiati vedevano”. Una missione importantissima ma faticosissima, per lo meno da un punto di vista emotivo: “quando lavoro sono focalizzata sul presente ma quando arrivo a casa sento il peso di ciò che ho visto, fotografato e ho bisogno di molto tempo per smaltire le immagini che mi sono entrate nella pelle. Non solo i soldati, ma anche i giornalisti, soffrono del disturbo post-traumatico da stress, nessuno ne parla ma è così”. Il fatto di essere donna “è una fortuna - precisa - perché da donna ho il normale accesso permesso ai giornalisti e quello speciale, a realtà negate ai miei colleghi uomini”.

Essere donna: un accesso privilegiato?

Una coppia cammina sopra le ceneri della propria casa distrutta da un bombardamento. © © Camille Lepage - Sudan

Opinione condivisa anche da Diana Zenyneb Alhaindawi una dei 50 talenti emergenti secondo Lens Culture che nel 2015 ha ricevuto l’Humaitarian Visa d’Or Award per il lavoro fatto durante il processo per stupro di massa di Minova, in Congo: “Credo di aver avuto un accesso privilegiato perché, in quanto donna, incutevo meno timore e questo predisponeva le persone a mostrare la loro essenza in maniera più immediata: un buon fotografo coltiva l’empatia ma nelle zone di guerra il tempo è poco e l’essere donna può essere un vantaggio”. Non sempre, però: "la deriva più frequente è non essere presa sul serio”. 

Lo sa bene Annabel Van den Berghe, fotoreporter che collabora (non solo) con The Guardian e Al Jazeera ma anche con la Banca Mondiale in qualità di consulente su temi politici e finanziari e nei suoi scatti in Siria e in Iraq ha voluto indagare l’aspetto più profondo dei conflitti. “Le storie che stanno dietro alle notizie, alle grandi vicende”, “il punto di vista degli uomini e delle donne comuni che i giornali non possono raccontare” scoprendo e rivelando che, alla fine, “le parti opposte vogliono le stesse cose, fanno le stesse cose, hanno gli stessi bisogni e le stesse paure”. Per riuscirci Annabel ha dovuto entrare nelle case, vivere la loro vita quotidiana: un privilegio concesso solo a una donna. E da “donna che parla arabo sono riuscita anche a parlare con gli uomini”. Non con tutti allo stesso modo, certo: “i miliziani in Siria, per esempio, hanno preteso che un interprete mediasse la conversazione e questo solo perché ero una donna”. Una donna che, nonostante tutto, ha scattato la sua foto e raccolto la sua testimonianza. In prima linea.

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