Gender, scuola e genitori: quando una fiaba porta al ritiro della figlia

Una fiaba gender in classe ha scatenato due genitori che hanno ritirato la figlia da scuola. La polemica si riaccende ma l'iniziativa non ha nulla a che fare con La Buona Scuola: è un progetto della Regione Toscana.

Gender, le fiabe entrano nelle scuole e accendono le polemiche.


Le fiabe gender entrano nelle aule e, com’era facile prevedere, i genitori trovano immediatamente il motivo per l’ennesima battaglia. È successo in provincia di Massa Carrara dove due genitori hanno ritirato la figlia da una scuola elementare perché in classe si leggono storie come quella di Alberto, bambino che vorrebbe giocare con le bambole ma riceve solo giocattoli “da maschio”, e poi quella della principessa che affronta un drago da sola (cioè senza l’aiuto di un principe). Appena la notizia s’è diffusa, altri genitori si sono messi sul piede di guerra, pronti anche loro - così assicurano - a trasferire i figli.

La scelta di cambiare istituto non dipenderebbe solo dalle due favole. Sostiene la madre: “Hanno cercato di insegnare a nostra figlia che non esistono l'uomo o la donna, ma che siamo ciò che ci sentiamo di essere in quel momento”. Insomma: “Stanno confondendo i bambini e lo fanno con le favole". Il fatto è che non si tratta dell’iniziativa di un docente più o meno illuminato, ma di un progetto finanziato dalla Regione Toscana: si chiama Liber* Tutt*, arrivato alla seconda edizione che, nel 2014, aveva già coinvolto 35 scuole del territorio e 1100 alunni. I genitori in questione, però, dicono che non ne sapevano nulla.

Progetto gender: i costi e le polemiche

A Massa la Regione Toscana ha speso 78mila euro per mettere in piedi il progetto gender. Così alle perplessità educative gli stessi genitori aggiungono obiezioni sul piano pratico: “Se hanno dei soldi da spendere potrebbero mettere una pensilina davanti alla scuola. Quando piove i bambini si bagnano” e giù recriminando: da “insegnino italiano e matematica, al resto pensiamo noi” a “giusto combattere l’omofobia, ma il progetto andava presentato meglio”. Le insegnanti fanno muro: “È stato spiegato nei dettagli in tv dalla responsabile della provincia, girano un mucchio di falsità”, dice la maestra Paola, coordinatrice di Liber* Tutt* nella scuola. Sulla vicenda è intervenuto anche il vescovo di Massa Carrara e Pontremoli Giovanni Santucci: “Se un genitore ha ritenuto opportuno un gesto del genere è giusto che l'abbia portato a termine”, mentre la politica ha cavalcato la polemica. In consiglio regionale (e in diversi comuni) i gruppi di Forza Italia, Fratelli d’Italia e della Lega hanno presentato interrogazioni e mozioni sull’argomento. E il consiglio regionale della vicina Liguria ha già approvato una mozione per tenere la teoria gender fuori dalle scuole.

La Buona scuola e i timori gender

Nel calderone della protesta, poi, tutto fa brodo. Così all’inizio dell’anno scolastico c’è stata una levata di scudi contro la riforma della Buona scuola, accusata di contenere programmi ispirati alle teorie gender. Il ministro Stefania Giannini ha chiarito: “Non c’è nulla del genere nella riforma”. La deputata Pd Camilla Sgambato, insegnante e componente della commissione che ha seguito la riforma ha provato a spiegare che si tratta di un equivoco che “nasce, forse, dall’articolo che prevede l'attuazione dei princìpi di pari opportunità promuovendo l'educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni”. Naturalmente l’educazione gender non ha nulla vedere con la cancellazione dell’identità sessuale. Questo approccio educativo, nato in Nord America a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, si propone di tenere conto da un lato dell'identità biologica (il sesso), dall'altra del genere, ovvero la costruzione culturale e rappresentativa fatta anche di comportamenti. Due dimensioni interdipendenti che danno vita allo status di uomo e donna. 

La parità di genere: il dibattito in Francia

In Francia il centro studi Hubertine Auclert - che lavora sulla parità di genere - ha chiesto di ripensare l’opportunità di proporre ai bambini fiabe come Cappuccetto Rosso, Hansel e Gretel e Cenerentola.Piene di rappresentazioni sessiste perché presentano i personaggi femminili sempre in ruoli stereotipati”. Nei libri di scuola il 39% delle donne è confinato in ruoli di mamma o di cuoca, mentre gli uomini fanno sport, non c’è nessuna traccia delle famiglie con genitori dello stesso sesso (o con un solo genitore) e si è troppo fedeli alla grammatica. “Bisognerebbe insegnare agli alunni che alcune parole possono essere declinate non solo al maschile o al femminile, ma secondo l’orientamento sessuale del momento”.

Esperimenti gender

Non è un’idea campata per aria. In Svezia all’inizio del 2014 è stato anche approvato un elenco ufficiale di 170 nomi unisex, e all’asilo Egalia - che ha aperto i battenti a Stoccolma nel 2010 - i bambini non sono né maschi né femmine. I genitori lasciano che scoprano da soli il loro genere: fino ad allora sono “hen”, creature neutre per cui si usa un pronome asessuato. Altrettanto neutri i giocattoli - stop alla divisione automobiline-bambole - , ascoltano favole neutre e disegnano famiglie neutre. Anna Gualerzi, psichiatra psicosessuologa del Centro interdipartimentale disturbi identità di genere della Città della Salute e della Scienza di Torino, riceve tutti i giorni persone con disforie sessuali. E gli esperimenti sul sesso durante l'infanzia le piacciono parecchio: “i pazienti raccontano traumi vissuti a tre anni, quando si sentivano obbligati a vestirsi di rosa o di azzurro. Un contesto neutro aiuta i bambini a sperimentarsi spontaneamente, permettendogli di crescere secondo ciò che sentono di essere”.

Ora che la polemica è esplosa non sarà comunque facile spegnerne gli ardori. E quando prenderà - come sempre accade in Italia quando si parla di sesso o di famiglia - la piega della difesa della nostra tradizione culturale in contraddizione con le presunte stranezze nordeuropee sarà bene ricordare ai conservatori nostrani che già nell’antica Grecia i bambini, dalla nascita alla pubertà, erano semplicemente pàida: termine buono tanto per i maschi quanto per le femmine, che si declina al neutro. Perché nelle lingue dei nostri antenati - il greco e il latino - la grammatica era già gender, e accanto al maschile e al femminile c’era il neutro. 

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