Italiani troppo pigri: la sedentarietà è il male del secolo

L'Italia è nella top 20 dei più pigri al mondo. La sedentarietà accorcia la vita ed è una patologia e c'è chi vorrebbe che venisse riconosciuta dal Servizio Sanitario Nazionale. 

Tra gli italiani che fanno sport, solo il 45% si affida a un esperto: troppo pochi.

Quello tra gli italiani e lo sport è un rapporto complicato, improvvisato, incostante. Certo, negli ultimi cinquant'anni di strada se n'è fatta: la palestra ha soppiantato la caccia (l'attività più praticata nel 1965) e il 7% degli sportivi di allora è cresciuto fino al 60% di oggi. Eppure siamo nella top 20 dei più pigri al mondo. Per la precisione i 17esimi. I quinti se si guarda alla sola Europa: tra i campioni di divano ci battono solo Malta, Cipro, Serbia e Regno Unito. Al punto che "la sedentarietà è la malattia del secolo" ha ammonito Giuseppe De Rita, presidente del Censis che ha tirato le somme. Perciò, in quanto patologica, andrebbe riconosciuta dal Servizio Sanitario Nazionale

I dati sono emersi nel XXXIV Congresso nazionale della Federazione medico sportiva italiana che ha rappresentato un Paese dove gli inattivi sono 24 milioni, ovvero il 42% della popolazione con un indice di inattività pari al 54,7%. Tradotto: quasi sei italiani su dieci non muovono un arto. "Se devo dirla tutta - commentava a margine dei lavori il presidente del Coni, Giovanni Malagò - abbiamo qualche altro dato ancora peggiore: siamo secondi nella sedentarietà tra gli undici e i sedici anni, e al penultimo posto anche come tasso di obesità nei giovani. È tutto figlio di una dinamica che paga decenni di poca attenzione e di poca sensibilità a questo tema".

Lo sanno bene tutti quei ragazzi che cercano di conciliare scuola e sport facendo una vera e propria corsa ad ostacoli. Come Eleonora D'Elicio, venticinquenne campionessa Promesse Italiane nel salto triplo: "Frequentava il liceo scientifico - racconta Riccardo, il papà, nonché il presidente del Cus Torino - ma era un incubo: ogni lunedì, all'indomani delle gare, i professori la massacravano di interrogazioni". Eleonora sottoscrive e conferma: "non ho mai capito perché mi osteggiassero in questo modo, forse pensavano che le gare fossero una scusa per non studiare, o forse volevano semplicemente zittire i compagni invidiosi". Ha tenuto duro finché i genitori, stremati, l'hanno iscritta in un istituto privato. Scelta che non è certo per tutte le tasche (e le teste): "siamo stati fortunati - conferma D'Elicio - perché avevamo la possibilità economica e le idee chiare: abbiamo investito sulla formazione e sulle passioni di Eleonora". I risultati sono arrivati di conseguenza: oggi Eleonora gareggia per le Fiamme Azzurre, vince, guadagna e studia per specializzarsi in psicologia dello sport. "Se sono arrivata fin qui non è certo grazie all'aiuto che mi ha dato l'Italia - dice - ma in virtù di quello che ho ricevuto da persone che si sono sacrificate per me".

Anche se un dato positivo c'è, visto che solo il 22% degli italiani ha rinunciato alla palestra, alla piscina o ad altre attività fisiche a causa della crisi (meno di quanti hanno fatto a meno del ristorante, ovvero il 45%), il problema c'è e sta all'origine: nel Bel Paese manca l'educazione sportiva e ci si affida (troppo) all'improvvisazione. Scorrendo i dati del Censis emerge infatti come, se tra quelli che praticano attività solo il 45% si affida a un esperto di riferimento, il 30% dei sedentari comincerebbe a muoversi se un esperto gli desse i consigli giusti. "Oggi lo sport è il più importante strumento con cui il soggetto regola il rapporto con se stesso - commenta ancora Giuseppe De Rita - e se l'individualismo ci ha insegnato ad avere un rapporto con noi stessi a volte sregolato, lo sport è diventato invece il più comune ambito di regolazione tra il nostro soggettivismo che ci spinge a volere tutto e subito, senza sforzi e senza conseguenze, e la realtà oggettiva del nostro organismo, con i suoi tempi, i suoi cicli, le sue fragilità e le sue esigenze di cura e rispetto. La sedentarietà - conclude De Rita - è la patologia dell'individuo che, chiuso nel suo soggettivismo, per non scontrarsi coi suoi limiti, nemmeno conosce le sue potenzialità".

Risultato: chissà quanti fuoriclasse ci siamo persi per strada dimenticandoci che il corpo, come la mente, richiede esercizio, "che il talento non emerge solo per caso o per fortuna, ma anche grazie a un'attenta programmazione" spiega Claudio Manganaro, l'allora preparatore atletico degli azzurri che rappresentarono l'Italia alle Olimpiadi di Albertville, Lillehammer e Torino, e che oggi scommette sull'Hockey Club Valpellice Bulldog, la squadra che gioca e vince in serie A. "In Italia si cerca il fenomeno invece di creare il bacino che permetta al campione di crescere - spiega Manganaro - L'educazione fisica è spesso declassata a ricreazione. Così i pochi eletti sono costretti a fare i salti mortali nell'organizzazione quotidiana e i loro genitori torchiati da spese spesso insostenibili".  Un gran peccato, visto che "tra gli azzurri della nazionale di sci ricordo un solo diplomato a pieni voti - conclude Manganaro - tutti gli altri avevano già abbandonato le aule per le gare. Eppure, all'estero, i due percorsi vanno spesso di pari passo".

Il problema va affrontato, tanto più che diversi studi ormai hanno dimostrato che la sedentarietà riduce la neuroplasticità e le dimensioni dell'ippocampo, oltre ad agevolare l'invecchiamento dei telomeri. L'attività fisica, al contrario, favorisce un effetto neuroprotettivo, con risultati di apprendimento migliorati. Ecco perché è fortemente indicato pure in terza età. Senza considerare che, secondo James Levine, endocrinologo dell'Università dell'Arizona, la Sitting Disease (letteralmente, "malattia dello stare seduti") è una vera e propria patologia che accorcia la vita e che, secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, i decessi per le non-communicable diseases aumenteranno del 17% nei prossimi 10 anni ma, con interventi coordinati che comprendono anche l'attività fisica, sarà possibile evitare oltre 30 milioni di morti premature nel mondo entro il 2015, delle quali quasi il 50% negli under 70. A questo punto è davvero ora di mettersi a correre. Allenatore permettendo, va da sé. 


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