Le prostitute: la partita Iva, le tasse e nemmeno un diritto

A Rimini le prime prostitute costrette ad aprire la partita Iva per pagare tasse e contributi promettono di fare ricorso all'Agenzia delle Entrate. Un giro d'affari di 3,6 miliardi che non conosce crisi (anzi cresce) ma nemmeno chiarezza. 

La prostituzione si esercita sempre meno per strada e sempre di più in casa, davanti a uno schermo di un pc.


Dovranno pagare le tasse anche loro, le prostitute. Con un giro d’affari stimato in 3,6 miliardi all’anno, fanno l’Italia più ricca (tanto che sono state infilate nel calderone del Pil 2014 insieme al traffico di sostanze stupefacenti e contrabbando di sigarette o alcol). Sono una popolazione di circa 90mila lucciole che soddisfano circa 3 milioni di cittadini. Nel periodo più nero dell’economia mondiale (dal 2007 al 2014) il loro fatturato è cresciuto del 25,8% (+740 milioni di euro), d’altra parte la richiesta è salita del 20% (+20mila) e l’offerta del 28% (+500mila). Insomma, è ora che anche in Italia il mestiere più antico del mondo esca allo scoperto. Con tutte le conseguenze del caso. Prima tra tutte, la denuncia dei redditi

Il caso è scoppiato a Rimini dove, forte della sentenza della Cassazione del 1° ottobre 2010 (ribadita nel 2011) secondo cui "il meretricio è soggetto a tassazione perché attività lecita”, l’Agenzia delle Entrate ha costretto le lavoratrici ad aprire la partita Iva per pagare tasse e contributi sulle prestazioni effettuate. O meglio sui "servizi alla persona", come recita l'oggetto dell'attività. Peccato che le dirette interessate, titolari di profumati conti in banca abbiano risposto "neanche per sogno" e promesso ricorso.   

La questione è più complicata di quanto non sembri dal momento che se è vero che il reato è lo sfruttamento della prostituzione ma non la vendita volontaria del proprio corpo, ancora nel 2014 il suo valore economico è stato calcolato nel Pil alla stregua di attività criminali. A questo punto, delle due l’una. Il Codacons, che ha elaborato i dati e tirato fuori i numeri, ha evidenziato come “le politiche sulla prostituzione attuate in Italia sono prevalentemente di tipo repressivo. La vecchia legge Merlin è applicata per ostacolare ogni forma di relazione lavorativa, a ciò si aggiungono le ordinanze dei sindaci e la legge di pubblica sicurezza. L’insieme provoca non solo una criminalizzazione del lavoro sessuale anche violando la nostra Costituzione, ma anche l’emarginazione sociale delle lavoratrici/lavoratori”. Che, tradotto nella pratica, se da un lato vengono esortate a pagare tasse e contributi, dall’altro non vengono ascoltate quando richiedonoprotezione da parte della polizia e dei tribunali, l’accesso ad una adeguata sanità pubblica, il diritto a farsi una famiglia e a pagare le tasse con giustizia e non con iniziative e calcoli improvvisati dall’Agenzia delle Entrate che ci tratta da evasori senza predisporre a priori una regola per questo tipo di lavoro”.  

Nell’attesa che il qui pro quo si risolva, le prostituite riminesi in questione fanno i conti con le cartelle esattoriali a più zeri che si sono viste recapitare e, come tutte le colleghe - italiane (il 45%), straniere (il 55%) e qualche minorenne (il 10%) -, continuano a lavorare. In modo ben diverso rispetto all’immaginario. Ovvero, sempre meno in strada e sempre più in casa (ormai la quota è ripartita 60 a 40) soprattutto davanti agli schermi dei pc: “attraverso siti privati, pagine web, portali con annunci specializzati, ecc., dove escort e prostitute pubblicizzano i propri servizi raggiungendo un bacino di utenza sempre più esteso”. Per non parlare delle (giovani) cam girl - popolarissime in questi tempi di crisi, cresciute del 100% nel periodo 2007-2014 - che si mostrano nude alla web cam e il sesso lo vendono senza contatto: un giro di circa 18mila operatrici, ossia il 20% del totale. 

Dall’altra parte della barricata ci sono loro, i clienti: uomini tra i 35 e i 50 anni, con un  livello di istruzione basso o molto basso, sposati o con partner regolare, e padri di uno o più figli quelli che la cercano per strada; più giovani (25/35 anni), single, senza figli e con un livello di istruzione medio/alto quelli che invece la cercano online. Il tutto per una spesa media di 100 euro al mese, considerando che per passare poche ore con una escort si sborsano anche 500 euro mentre per pochi attimi in strada ne bastano 30.

Insomma, vuoi perché la crisi ha infoltito le fila delle operatrici che “stabilmente o occasionalmente, hanno deciso di vendere il proprio corpo per necessità”, vuoi perché “il business del sesso rappresenta un investimento sicuro per la criminalità organizzata (sia italiana che straniera), che continua a piazzare ragazze (specie dell’est europeo) nelle città italiane, senza che le istituzioni abbiano la capacità di arginare il fenomeno”, vuoi perché “oggi concedere il proprio corpo per soddisfare bisogni secondari non è più un tabù - si pensi ai numerosi casi emersi di recente di minorenni che erano solite vendere il proprio corpo per reperire soldi finalizzati all’acquisto di scarpe, borse, abiti e accessori griffati”, e vuoi perché pagare le tasse e i contributi fa bene alla comunità, è ora che la questione venga affrontata in maniera chiara e definitiva. Anche perché mentre il Parlamento rimanda e l’Erario fa i conti, loro, le prostitute riminesi, non hanno nessuna intenzione di arrendersi. 

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