Hungry Hearts: intervista con il regista Saverio Costanzo

Saverio Costanzo presenta, con il film Hungry Hearts, il suo quarto lungometraggio in cui ritroviamo la sua compagna attuale, Alba Rohrwacher, nel ruolo principale di Mina. Il regista ci ha concesso un'intervista e abbiamo scoperto come le sue esperienze di vita abbiano influenzato l'opera cinematografica.

Saverio Costanzo e Alba Rohrwacher hanno vinto due premi molto importanti per il loro film Hungry Hearts alla Mostra di Venezia. Il film ha avuto un grande successo anche al cinema.


Li avevamo già visti insieme ne La Solitudine dei Numeri Primi, il film del 2010 tratto dall'omonimo romanzo di Paolo Giordano, ed eccoli di nuovo protagonisti di un successo senza limiti, Saverio Costanzo e Alba Rohrwacher. Regista e attrice, da tempo innamorati l'uno dell'altra, tornano a formare coppia fissa sul set con il film Hungry Hearts, e la scelta è vincente. Il film, infatti, ha portato ad Alba la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile alla 71esima mostra del cinema di Venezia (la migliore interpretazione maschile va al co-protagonista Adam Driver, per il ruolo di Jude), mentre Saverio si è aggiudicato il premio Francesco Pasinetti per la miglior regia. 

Nel film i protagonisti, Mina e Jude, si innamorano perdutamente, e dal loro amore nasce un bambino non atteso: questo shock di diventare genitori cambia molte cose nella loro vita. Saverio Costanzo ci ha fatto capire tutto ciò che sta dietro la genesi di questo film che ha avuto tanto successo anche al cinema sin dalla data di uscita nelle sale, il 15 gennaio.

Saverio, perché questo film? Qual è stata la genesi del progetto?
Anni fa avevo letto il libro di Marco Franzoso, Il Bambino Indaco, che mi aveva profondamente colpito, ma non ci avevo pensato sul momento, perché mi sembrava troppo forte come storia. Un anno e mezzo dopo, ero malato a letto, un po' annoiato, e ho cominciato a riscrivere quella storia a mio modo, perché mi era rimasta molto impressa. In pochissimo tempo è venuta fuori la sceneggiatura e mi sono chiesto “Che faccio?”.

Ci sono delle differenze tra il libro e il film. Nel libro la storia è interamente incentrata in Italia, mentre il film è ambientato a New York. Il fatto che lei abbia vissuto per un certo periodo della sua vita nella Grande Mela, ha influito sulla sua scelta di ambientazione?
Certo, moltissimo. Per tre motivi: il primo è che non riuscivo a visualizzare questa storia in Italia: New York è una città immediatamente più violenta. Il secondo motivo è che ho abitato lì per tre anni e ho sentito lo stesso isolamento e la stessa paura dell'esterno, che mi hanno aiutato a raccontare un personaggio come quello di Mina. Terzo, io volevo fare il film con Alba e nel libro il personaggio femminile è straniero. Ho pensato che questo dovesse restare identico per dare un senso di sradicamento dalle proprie origini. 

Non è la prima volta che mette in scena un film a partire da un libro, lo avevamo già visto con La Solitudine dei Numeri Primi. Qual è la difficoltà per un regista nel riprendere un testo letterario e farne un'opera cinematografica?
Non so se ci sia una difficoltà. Io uso i libri, ma scrivo solo con la memoria di ciò che ho letto. In questo modo ho più forza a dire la mia, mi aiuta a ricreare nel film lo stesso sentimento che avevo provato leggendo il libro. Forse oggi per me è arrivato il momento di iniziare a scrivere un qualcosa interamente mio, perché finalmente riesco ad avere una gestione dell'oggettività e della soggettività che muove una storia. Fino ad ora mi sono servite le storie degli altri per orientare me stesso.

Per quanto riguarda le tematiche. Già ne La Solitudine dei Numeri Primi si era affrontata la problematica del cibo, quindi dell'anoressia, si era parlato di un'infanzia problematica e di matrimoni che non funzionano. Come mai ritroviamo in parte tutto ciò anche in Hungry Hearts? È un qualcosa che le sta particolarmente a cuore?
Non lo so. Io faccio quello che mi interessa ma le ragioni del perché lo faccio, profondamente non le conosco. Ma è vero che tutti i miei film, anche i due precedenti, hanno a che fare con la famiglia. Questo secondo me è il loro comune denominatore.

Lei che rapporto ha avuto con i suoi genitori?
Ottimo, però si sono separati, e anche io vengo da una separazione. Questo film mi è servito per imparare a perdonarmi. Imparare anche a non giudicare, in questo caso la madre dei miei figli, o me stesso come padre. 

Quanto ha influito nella sua vita il fatto di essere figlio di Maurizio Costanzo?
Professionalmente ho fatto tutto da solo, forse ho avuto più problemi a chiamarmi così all'inizio, però allo stesso tempo mi ha fatto bene perché mi ha permesso di superare i miei limiti. In quello che gli altri potevano fare in modo più “anonimo”, io venivo subito "etichettato", perciò avevo una sorta di responsabilità. Forse questa cosa mi ha aiutato ad avere una cultura vera del lavoro.

Al momento che rapporto ha con la madre dei suoi figli?
Grazie al cielo ottimo, però diventare padre è stato uno shock. Ho un ottimo rapporto con lei e i miei figli, però ho passato quattro anni difficilissimi. Mi sentivo di replicare gli errori dei miei genitori. Come si fa ad interrompere il destino che gli altri ti hanno imposto?

Dunque questo shock di diventare genitore lo vediamo anche nella protagonista all'inizio?
Certo, ma in tutti loro. Anche in Jude. Prendersi la responsabilità di qualcun altro non è semplice. Io non credo che sia così scontato diventare genitori al giorno d'oggi. Noi celebriamo sempre l'istinto materno, ma non possiamo chiedere alle donne di fare tutto quello che fanno gli uomini e mantenere intatto quell'istinto, non possiamo dare per scontata questa responsabilità. Per me è la prima mancanza di rispetto verso le donne; non capire che per loro può essere difficile mettere insieme tutti i pezzi. 

Secondo lei si potrebbe definire questo film come un documentario sulle ossessioni umane?
Sarebbe il massimo, perché vorrebbe dire che è realistico, ma non mi sento di poter dire che questo film sia un prontuario delle ossessioni contemporanee. Certo è che è una storia che 40 anni fa non poteva esistere: non c'è madre che dopo la guerra non dia da mangiare al figlio per “purificarlo” (Mina nutre il figlio con soli oli vegetali - ndr) e perciò è sicuramente una storia di oggi, ma non in maniera universale.

Quando ha deciso di diventare regista? Quando è nata questa passione per il cinema?
Dall'Università. Studiavo sociologia e ho cominciato a lavorare con le prime telecamere digitali verso il 97-98. La mia tesi di laurea parlava della vita di un bar italo-americano di Brooklyn. Invece di scrivere, io riprendevo, e questo mi ha dato una dimestichezza con l'immagine. Ma la mia base era etnografica, io volevo fare l'antropologo. In realtà poi ho scoperto che la regia è una forma di antropologia ed è stata molto naturale l'evoluzione.

All'inizio si occupava solo di documentari. Quando ha deciso di passare al lungometraggio?
Quando ho capito che volevo fare veramente questo mestiere. Mi trovavo sulla Striscia di Gaza, a casa di un signore la cui storia sarà poi la base del mio primo film, Private. Io volevo fare un documentario su quella storia, avevo chiesto a questo signore se potevo restare con la mia telecamera, lavoravo da solo ai tempi. Lui mi disse di no perché era pericoloso: era palestinese e divideva la casa con dei soldati israeliani che abitavano al piano di sopra. Mi propose di farne un film, e accettai subito la sua idea. Il cinema è un mestiere così vario che non può non affascinarti, c'è tutto dentro: c'è la solitudine dello scrittore, c'è la socialità del gruppo di lavoro, c'è l'amore per la musica, la fotografia, la letteratura... nel cinema puoi mettere tutto quello che ti piace, è la settima arte che le racchiude tutte. E da quel momento non mi sono più fermato.

Andiamo un po' sul privato. Non le dà fastidio vedere Alba, la sua compagna, mentre gira scene d'amore con un altro uomo?
E io ero l'operatore! Sì mi da fastidio però...sì mi da fastidio! Non è facile! Però poi c'è la fiducia nell'altra persona, ma è una delle cose che mi piace di meno. Anzi non mi piace proprio! Però... si fa!

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