Cassandra, la ragazza che non vuole curare il suo tumore

Cassandra C. ha 17 anni e un tumore (curabile) ma non voleva la chemioterapia. La Corte Suprema l'ha obbligata alle cure affidandola alla tutela del Department of Children and Families

Cassandra C. ha raccontato la sua storia con una lettera (nella foto) inviata al giornale locale Hartford Courant.


Cassandra C. è nell'ospedale di Hartford da un mese, contro la sua volontà. "Mi hanno legata ad un letto per i polsi e per le caviglie e mi hanno sedata. Mi sono svegliata in sala di rianimazione con un catetere inserito chirurgicamente sul torace. Ero indignata e mi sentivo completamente violata. Il mio telefono era stato portato via, quello dell’ospedale era stato rimosso dalla mia camera e mi avevano portato via anche le forbici che usavo per ritagliare". Non è un film dell'orrore. È la giustizia che fa il suo corso perché Cassandra C. è una ragazza di 17 anni che vive a Windsor Locks - 12 mila abitanti nella contea di Hartford, in Connecticut, negli Stati Uniti - che ha il linfoma di Hodgkin, un tumore che colpisce il sistema immunitario che, se diagnosticato e trattato nei tempi giusti, ha un elevato tasso di sopravvivenza. Il suo, spiegano i medici, si aggira intorno all'80-85%, altrimenti la morte è assicurata nel giro di un paio di anni. Il problema è che Cassandra C. (con l'avallo di sua madre) questo tumore non lo voleva curare. Risultato: la Corte Suprema del Connecticut ha deciso per lei (e al posto della madre) sottoponendola alle cure forzate e affidandola alla tutela del Department of Children and Families (DCF), l’agenzia del governo americano responsabile dei servizi sociali e dell’assistenza ai minori.

La questione è spinosa perché la ragazza è minorenne, perché la vita è un diritto e perché la malattia che l'affligge è curabile. Di certo è destinata a suscitare gli animi e le polemiche, anche perché a raccontare la storia a un giornale locale con una lettera, ci ha pensato lei stessa. Descrive gli ultimi 17 anni di vita in cui ha "vissuto una buona vita" in compagnia del suo gatto Simba e di sua madre che ha "svolto il ruolo di una mamma e di un papà, e ha fatto davvero un buon lavoro", che le ha insegnato "a essere una donna forte, capace e indipendente", "a distinguere il bene dal male" e che l'ha "sempre guidata verso la giusta direzione, restando al mio fianco in ogni mia scelta. Non avrei la mia forza, la mia determinazione e la mia carica, se non fosse per mia madre". Eppure, secondo quanto riporta Associated Press, una volta diagnosticato il male, quella stessa madre le permette di non presentarsi a diversi appuntamenti già fissati per le sedute di chemioterapia, convincendo i medici a segnalarla ai servizi sociali per negligenza: "Mia mamma è stata definita “ostile”, “negligente” e “disinteressata”, tre parole false che mi spezzano il cuore" scrive Cassandra.

Tant'è: a ottobre gli assistenti sociali e i poliziotti di Windsor Locks bussano alla porta di casa e trovano Cassandra da sola: "mi sono nascosta nel mio armadio a piangere al telefono con la mamma e i miei amici fino a quando mamma è tornata a casa. Sono rimasta seduta nel mio armadio per almeno un’ora, mentre la mamma, gli assistenti sociali e la polizia discutevano al piano di sotto. Avevo paura". Ma la sentenza è già stata scritta: Cassandra li deve seguire nella casa famiglia a cui l'hanno assegnata. Passa un mese e a novembre può ritornare a casa a patto che si sottoponga alle sedute di chemioterapia. Patto che la giovane rispetta le prime due volte salvo poi decidere che non ce la fa: "due giorni sono stati sufficienti per farmi capire che mentalmente ed emotivamente non potevo reggere la chemioterapia. Mi sentivo schiacciata contro un muro. Non avevo il diritto di scegliere quello che volevo". 

E così Cassandra scappa di casa, lasciando (l'ignara) madre, il lavoro da commessa in un negozio e il suo amato gatto Simba. Una settimana dopo torna, nel frattempo il suo caso rimbalza da un'aula all'altra e a dicembre arriva il verdetto ufficiale: Cassandra viene ricoverata all'ospedale, la sua stanza finisce sotto sorveglianza, e lei può passeggiare nei corridoi sorvegliata a vista: "mi sentivo in trappola" commenta ricordando quei giorni. Una settimana dopo inizia la chemioterapia forzata. Il resto è ormai storia. 

Nel frattempo la madre, che urla ai quattro venti che "Cassandra non vuole dei veleni nel suo corpo", convinta che la cura sia peggio del male ma (pare) non influenzata da alcun credo religioso o legato alla medicina alternativa. Perciò, convinta di fare il bene di sua figlia, si è rivolta alla Corte Suprema del Connecticut per violazione dei diritti umani appellandosi al principio del "minore maturo" che permette ai ragazzi di 16 e 17 anni di motivare le proprie ragioni in Tribunale quando in ballo ci sono questioni mediche. Ma la Corte ha respinto l'appello confermando la decisione che obbliga la ragazza ad accettare le cure e la madre a stare in disparte.

"Questa è la mia vita e questo è il mio corpo - conclude amareggiata Cassandra - non del Department of Children and Families e non dello Stato. Sono un essere umano: dovrei essere in grado di decidere se volere o non volere la chemioterapia. Che io viva 17 anni o 100, dovrebbe essere una scelta mia e di nessun’altro. Siamo tenuti a vivere entro un certo termine per legge? Chi lo stabilisce? Mi interessa la qualità della mia vita, non solo la quantità". Il dibattito, a questo punto, è ufficialmente aperto

Copyright foto: Hartford Courant

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