Francesco Patierno presenta la Diva! di Venezia
Anna Foglietta? Una belva. Carolina Crescentini: istintiva. Sono solo due delle 8 attrici del cast al femminile di Diva! il documentario di Francesco Patierno, un’alchimia tra la realtà e la finzione, guidati dall'inconscio.
Da napoletano figlio di una veneta che alla Mostra del Cinema ci andava da bambina, per collezionare gli autografi dei vip, Francesco Patierno se l’è proprio goduta questa Venezia ’74. “È stata la volta in cui me la sono goduta di più”, confessa il regista e sceneggiatore che al Lido ci era già stato altre cinque volte ma quando si è ritrovato in platea da spettatore, in quella Sala Grande sold out, ha dovuto trattenere le lacrime un paio di volte. Presentato fuori concorso, il suo Diva!, il documentario su Valentina Cortese, protagonista del cinema italiano degli anni Quaranta, è stato un successo riconosciuto pure da Hollywood Reporter, la bibbia dei cinefili Oltreoceano. Per un verso annunciato, visto che già in fase di selezione il direttore Alberto Barbera l’ha chiamato per dirgli quanto avesse emozionato un po’ tutti. Per un altro del tutto “sorprendente”, dal momento che “nessuno si aspettava nulla da questa piccolissima produzione dal cast grandioso, tutto al femminile”, ammette lui. Un cast “di cui vado fierissimo”, otto donne che con la loro personalità, il loro istinto e la loro interpretazione, ne hanno raccontata una. Una Diva!
Perché il punto esclamativo?
“Tutta la verità: mi piaceva Diva ma c’erano già due lavori e io non volevo cambiare il titolo. Il punto esclamativo è stata una folgorazione dettata dall’istinto. Poi mi sono reso conto che avrebbe portato un contenuto in più, scatenando associazioni e io adoro lavorare con l’inconscio. In quel segno c’è lo stupore e c’è l’imperativo mentre non c’è la battuta, né il glamour”.
Otto dive per una Diva!: come ha costruito il set?
“Più che costruire, ho decostruito le basi tecniche delle attrici seguendo una modalità già sperimentata in lavori precedenti. Una tecnica che, lì per lì, manda in confusione gli interpreti ma poi crea reazioni difficilmente raggiungibili con il raziocinio. Ho osato, ho toccato corde che nemmeno loro sapevano di avere né di saper suonare”.
Ce le descrive tutte con una parola?
“Con grande piacere, anche se non è facile perché sono molto più di quello che dirò. Anna Foglietta: una belva; Isabella Ferrari: una tigre; Silvia D'Amico: talentuosa; Anita Caprioli: preparatissima; Carolina Crescentini: istintiva; Greta Scarano: selvaggia; Carlotta Natoli: profonda; Barbora Bobulova: sorprendente”.
E Francesco, che parola è?
“Indefinibile. Mi piace che siano gli altri a descrivermi. Valerio Mastrandea un giorno mi ha detto una cosa di cui vado molto fiero: tu sei uno spettatore dei film che fai”.
E Valentina, ora che la conosce un po’ di più?
“È la conferma di quanto si debba andare oltre l’apparenza. Io ho scoperto una donna di grande sostanza nascosta dietro a un’attrice all’apparenza sopra le righe. Una bambina che ha vissuto un'infanzia difficile, in campagna, abbandonata 'a balia', un'attrice che ha lavorato a Hollywood, una donna che ha amato grandi uomini in storie complesse. Valentina è un pretesto per raccontare una storia umana piena di link in cui ciascuno può identificarsi”.
Quanto c’è di vero e quanto c’è d’inventato in Diva!?
“Premessa: credo che non esista la verità; piuttosto credo nella sincerità. Nel raccontare una storia il rispetto della realtà è fondamentale, è il canovaccio. Il resto non è fantasia, la penso come Gabriel Garcia Marquez che pur avendo creato un mondo fantastico diceva “Io odio la fantasia”. Il resto è un realismo magico costruito estrapolando elementi dalla realtà che danno al racconto un altro sapore. L’importante è non avere un atteggiamento precostituito né avere paura di cambiare idea. Nel caso della Cortese - che prima non conoscevo per nulla - dopo averla letta mi sono abbandonato alle immagini che hanno la loro verità e danno indicazioni molto precise. Il risultato è un caleidoscopio che trasmette emozioni, più che indicazioni. Nel mio lavoro di regista sono come il medium: trasferisco e lascio agli altri l’interpretazione cercando di replicare la sorpresa che, per primo, provo io. È un’alchimia, più che una ricetta”.
Raccontare qualcuno ancora in vita è un freno o un acceleratore della creatività?
“La realtà non è mai un freno, è uno stimolo. È come il lavoro di un fotografo davanti a qualcuno già ripreso: sa sempre catturare un elemento che è sfuggito, in primis al soggetto stesso. La realtà, anche quella documentata, è ancora tutta da scoprire, scombinare, interpretare”.
Ci sono ancora Dive come lei?
“Potremo dirlo tra 30 anni, è troppo difficile giudicare il presente. È cambiato il sistema, il cinema non è più quello di una volta e la realtà è più complessa. Complici i social si sono accorciate le distanze, si è ridotto il mistero. Tuttavia credo che anche le immagini di tutti i giorni postate dai divi contribuiscano ad alimentare una certa magia, che s’inseriscano in questa complessità. E comunque, quando li vedi di persona, i divi alla George Clooney, anche se pensavi di essere abituato, scopri che non lo sei. E, se emozionano, sono divi e noi fan”.
Valentina ha un buco nero nell’infanzia che “diventa il motore di una ricerca artistica”: è la catarsi della recitazione?
“L’attore deve avere dentro di sé qualcosa in più, nel bene e nel male, per immolarsi ed esporsi davanti alla cinepresa prima e al giudizio del pubblico poi. Servono una forza e una fragilità enormi. Sebbene sia un lavoro di costruzione, il vissuto, anche solo emotivo, è fondamentale per comprendere le emozioni che l’attore deve trovare dentro di sé e risputare fuori. È come una sottilissima corda di uno strumento che da un momento all’altro può spezzarsi. È il motivo per cui tra regista e attore si crea rapporto molto intimo, un territorio dove, mettendosi in gioco, si scambiano consapevolezze. La catarsi coinvolge tutti, anche il regista, anche me, che in ogni film faccio una tappa in avanti verso il grande film della vita, ogni volta riparto da zero cercando strade poco battute, ascoltando l’inconscio. Che ha ancora molto da tirare fuori”.