Zaha Hadid: la firma dell'archi-star impressa nel mondo

Scomparsa a 65 anni, Zaha Hadid immaginava e costruiva il futuro giocando con i volumi. A raccogliere (e disseminare) la sua eredità da Nobel, sarà il suo studio, dove lavorano 246 architetti.   

Zaha Hahid fu la prima donna ad aggiudicarsi il Premio Pritzker, il Nobel dell'architettura.


Sorprendenti, sinuosi, grandiosi, futuristici. La firma di Zaha Hadid, la Regina dell’architettura scomparsa il 31 marzo 2016 a 65 anni, è impressa nelle città di mezzo mondo. A Roma l’ha messa sul MAXXI, il museo nazionale delle arti del XXI secolo, a Londra sull’Olympic Aquatic Centre, a Baku (Azerbaijan), sull'Heydar Aliyev Centre, a Manhattan nel parco della High Line, in un condominio extralusso, a Innsbruck (Austria) sul trampolino del Monte Bergisel, a Hong Kong sulla Jockey Club Innovation Tower, a Guangzhou (Cina) sulla Opera House, a Seul sul Dongdaemun Design Plaza & Park, a Rabat (Marocco) sul Grand Theatre.  

La lista è lunga, lunghissima, attraversa il globo e pure il tempo, visto che comprende edifici che ancora sono solo sulla carta: per esempio il nuovo aeroporto di Pechino, una città alle porte della città con la forma di una stella marina. Un terminal da 45 milioni di passeggeri all’anno che dopo il 2025, diventeranno 72 milioni. 

Perché anche se non c'è più, l’archi-star Medaglia d'Oro del Royal Institute of British Architects, che nel 2004 fu la prima donna ad aggiudicarsi il Premio Pritzker, il Nobel dell'architettura, di lei non restano solo gli edifici ma anche i talenti coltivati che continueranno a spargere per il mondo i suoi frutti: 246 architetti, per la precisione. Quelli della Zaha Hadid Architects, lo studio londinese nel palazzo vittoriano a Clerkenwell, uno dei più importanti del mondo, oggi a lutto. Le hanno detto addio chiamandola Dame l'equivalente femminile di Knight, cavaliere, l’hanno elogiata come "il più grande architetto donna di oggi", giudizio condiviso da molti. Lord Rogers, tanto per citarne uno, l’architetto del Centre Pompidou e del Millennium Dome: "nessuno, tra gli architetti degli ultimi decenni, ha avuto più influenza di lei" ha scritto commentando la sua improvvisa scomparsa, per un infarto. 

Perché Zaha Hadid - nata a Baghdad il 31 ottobre 1950 - immaginava e aveva il coraggio (e il talento) per osare, abile com’era a creare alchimie con i volumi. Forse un retaggio di quegli studi in Matematica, frequentati all’Università americana di Beirut, prima di iniziare il viaggio nell’architettura, nel 1972 all'Architectural Association di Londra, dove si trasferì e dove, nel 1980 fondò il suo primo studio insieme a Rem Koolhaas ed Elia Zenghelis. Sono gli anni in cui stupisce il mondo progettando nel 1983 The Peak a Hong Kong, tre anni dopo il Kurfürstendamm a Berlino e la Cardiff Bay Opera House in Galles nel 1994.     
Zaha costruisce la sua reputazione un disegno dopo l’altro, non senza dribblare ostacoli perché il fatto di essere una donna, di certo non aiuta il suo approccio rivoluzionario: le prime commesse stentano, il suo disegno per l'Opera House di Cardiff (clamorosamente) bocciato negli anni Novanta non decolla finché non ottiene l’incarico per il Museo dei trasporti di Glasgow, concluso nel 2011. Difficoltà che Zaha supera senza scomporsi, con tenacia, accettando le sconfitte con l'ironia dei suoi occhi nocciola. L’ultima arrivata l’estate scorsa, quando il progetto per lo stadio olimpico di Tokyo 2020 si arenò tra le polemiche: per costruirlo ci sarebbero voluti 2,5 miliardi di dollari, il budget più caro della storia. 

Poco male: Zaha, che nel 2008 Forbes inserì tra le 100 donne più potenti del Pianeta e il Guardian in quella delle 50 persone più eleganti del mondo, si tirò su le maniche e ricominciò a disegnare. Come faranno i talenti che ha coltivato: versate le lacrime ritorneranno all’opera continuando a spargere nel mondo i semi di quel genio che era Zaha Hadid.

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