Cosmetici bio: occhio alle etichette truccate

La legge italiana non ha mai deciso cosa significa "biologico" o "naturale" quando si tratta di cosmetici. Ecco una piccola guida per orientarsi nella selva delle etichette.

I componenti vegetali che non hanno subito processi chimici sono indicati con il nome botanico in latino, quelli sintetizzati hanno il nome in inglese.



Dimmi come ti fai bella e ti dirò chi sei. Oppure: dimmi come mi fai bella (o bello) e ti dirò se ho deciso di acquistarti: se deve essere biologico ciò che mangiamo, dovranno esserlo anche i cosmetici. Fatta nostra questa cautela, eccoci proiettati – come già succede al banco degli alimentari – in una selva di etichette e sigle misteriose: promettono meraviglie naturali esaltando gli ingredienti green e dissimulando gli inevitabili componenti di sintesi chimica. Chiaro che la scritta "bio", messa di traverso sul tappo di moltissime confezioni, non basta: anzi può essere fuorviante. Perché la legge italiana, diversamente da quanto accade con gli alimenti, non ha mai deciso cosa significa "biologico" o "naturale" quando si tratta di cosmetici. E stampare una scritta sulla confezione costa molto meno che separare a mano i fiori di una pianta rara.

Oggi bisogna affidarsi alle indicazioni rilasciate da enti privati. I più conosciuti sono Cosmos e Natrue. Il primo ha stabilito due categorie principali: nei prodotti biologici (Cosmos organic) almeno il 95% degli ingredienti agricoli deve essere "ottenibili con semplici metodologie fisiche di estrazione" e questi devono rappresentare almeno il 20% del prodotto finito, compresa l’acqua. Quelli naturali (Cosmos natural) non possono contenere più del 2% di materie di sintesi. Nelle certificazioni di Natrue, invece, i prodotti naturali si dividono in tre gruppi: naturali (almeno il 70% degli ingredienti deve provenire da una lista di quelli ammessi), naturali biologici (il 70% deve venire da agricoltura biologica) o biologici e basta: in quel caso deve essere biologico almeno il 90% del contenuto. In Italia c’è l’Icea (istituto per la certificazione etica e ambientale), che ha un’ampia sezione dedicata ai cosmetici.

Detto questo, si può procedere all’inverso. Cioè identificare, preventivamente, le sostanze che è meglio evitare: paraffine, siliconi, profumi e coloranti di sintesi, elementi sottoposti a radiazioni, organismi geneticamente modificati e ingredienti di derivazione animale. Poi bisogna leggere con attenzione l’Inci (international nomenclature of cosmetics ingredients): meno la lista è lunga, meglio è. C’è poi un trucco per leggere le etichette: i componenti vegetali che non hanno subito processi chimici sono indicati con il nome botanico in latino, quelli sintetizzati hanno il nome in inglese.

Bisogna infine tenere conto del fatto che l’attenzione alla salute (la propria e quella dell’ambiente) non si ferma alla lettura delle sostanze che usiamo per curare il nostro corpo. Bisogna badare ad acquistare prodotti "cruelty free", cioè non testati su animali - in Italia e in Europa, in verità, la vendita di questo tipo di prodotto è vietata dal 2013, chi se ne vanta vi sta prendendo in giro -, che garantiscano l’assenza di metalli pericolosi come nichel, cromo e cobalto. Per non parlare della garanzia che confezionamento, imballi e trasporto siano ecosostenibili.

Il mercato dei cosmetici biologici in Italia vale un fattuarato da 400 milioni, secondo la stima di Confcommercio per il 2014. Cresce in continuazione: rispetto al 2013 il giro d’affari è cresciuto quasi dell’8%. Nel mondo il mercato della bellezza al naturale vale 13 miliardi di dollari. Ce ne siamo già accorti perché questi prodotti, che fino a qualche anno erano venduti solo in negozi dedicati, oggi sono sugli scaffali di tutti i grandi distributori. L’offerta si è allargata, e insieme a quella è cresciuto il rischio di prendere una fregatura. In attesa che la legge stabilisca criteri precisi, come succede con gli alimenti.


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