Dheepan: al cinema "una nuova vita", nella realtà il dramma dei ricongiungimenti

"Dheepan – Una nuova vita", nelle sale dal 22 ottobre, porta al cinema una famiglia che si costituisce per migrare. Nella realtà, i ricongiungimenti finiscono per separare molti nuclei.  

"Dheepan – Una nuova vita" di Jacques Audiard, porta al cinema il dramma delle famiglie dei migranti.


Al cinema il migrante si chiama Dheepan. A dire il vero si chiama Sivadhasan ed è un membro delle Tigri Tamil - il gruppo indipendentista dello Sri Lanka -, ma quando si ritrova in mano il passaporto di un certo Dheepan non ci pensa due volte e organizza la fuga da quel paese per cui è stanco di lottare. Prima di mettersi in marcia, però, si accoda a una donna e una bambina di 9 anni, anche loro in fuga, anche loro spaiati. 

È così che i tre fingono di essere la famiglia che non sono e quando finalmente raggiungono la periferia parigina, finiscono per diventarlo: una famiglia straniera catapultata dall’altra parte del mondo, in mezzo ad altre abitudini, ritmi e modalità ma circondati dalla stessa violenza delle bande criminali. Il fatto è che ora si ritrovano a fare i conti con quel nucleo che li ha protetti, quella famiglia prima fittizia e poi diventata terribilmente reale, che li costringe a scegliere se rimanere uniti o separarsi. Firmato dal regista e sceneggiatore francese Jacques Audiard, Dheepan – Una nuova vita (nelle sale dal 22 ottobre), ha conquistato pubblico e critica aggiudicandosi la Palma d’oro per il miglior film al Festival di Cannes

Migranti: i ricongiungimenti familiari

Dal cinema alla realtà, le famiglie invece di unirsi strada facendo, si spezzano a mano a mano che qualcuno imbocca la fuga. Ci sono le volte in cui parte per prima la donna, come accade di solito dal Sud America e quelle in cui tocca all’uomo, soprattutto nei paesi a cultura musulmana. Trovata una casa, un lavoro, un nuovo posto dove stare, alla spicciolata arrivano gli altri e la famiglia si ricongiunge. O meglio, dovrebbe, perché nella pratica è tutto molto più difficile. 

Lo sanno bene al Mamre di Torino dove, dal 2001 prevengono il disagio psichico e sociale dei migranti: sempre di più, negli ultimi anni, “si sono presentati stranieri afflitti da problemi legati al ricongiungimento familiare - spiega Francesca Vallarino Gancia, psicologa e psicoterapeuta -, ovvero nuclei dilaniati da conflitti interni, dove i confini tra i ruoli di marito e moglie o i rapporti tra figli e genitori si sono scardinati”. Di solito, chi rimane più spiazzato è chi arriva dopo perché non solo la realtà in cui si ritrova, ma soprattutto la persona che riabbraccia è molto diversa da quella che ha lasciato. Nel cercare nuove chances di vita, tentano di decodificare la cultura occidentale, ciascuno con i propri strumenti e ciascuno mettendo in atto strategie che fanno riferimento a contesti culturali e sociali ancora “tradizionali”. “Ciò significa che il fenomeno migratorio porta a ripensare al processo culturale di modernizzazione della famiglia, perché dal momento stesso della migrazione questa non sarà più la stessa, ma diverrà un’altra cosa” spiega Francesca Vallarino Gancia.

Stranieri in famiglia

Insomma, se il ricongiungimento familiare è quel meccanismo che permette ai parenti più stretti di raggiungere il migrante per tenere insieme il nucleo, il fatto è che molte volte capita che il viaggio intrapreso in tempi diversi non solo li abbia portati lontani nello spazio ma li abbia anche allontanati gli uni dagli altri. Risultato: invece di ritrovarsi, finiscono per perdersi, spesso anche per sempre. “Molto spesso - spiega la dottoressa Gancia - il partire è assimilato a un’amputazione e nello stesso tempo si parla di “cuore rimasto là mentre i piedi e la braccia sono qui”. Amputazione che difficilmente non lascia tracce: in Italia, ogni anno, sono circa 100mila le famiglie che fanno domanda, a cui vanno aggiunti i 24 mila minori non accompagnati che, solo nel 2014, hanno presentato una richiesta d'asilo. Minori che, si presume, sono stati mandati in avanscoperta, per poi far arrivare la famiglia, con tutte le derive del caso, per lo meno nella prima generazione. 

Quando emigrano prima le donne

Marcia Beatriz Hadad che, al Mamre fa la mediatrice etnoclinica e segue i migranti dal Sud America, sente ripetere la frase “prima non era così” decine e decine di volte al mese. Perché il nodo della faccenda sta tutto qui: “le donne migrano per prime perché trovano più facilmente lavoro. Così facendo, però, acquistano potere, imparano la lingua, conoscono i luoghi, le dinamiche e la comunità e molto spesso hanno un lavoro. Quando il marito le raggiunge non le riconosce più: il problema è che per un uomo sudamericano, storicamente il capo-famiglia, dipendere in tutto e per tutto da una donna è molto complicato da accettare”.   
   

Quando emigrano prima gli uomini

Touraya Laaroussi, anche lei mediatrice etnoclinica al Mamre, ma punto di riferimento della cultura dei paesi musulmani, racconta una storia molto simile: “In questo caso arrivano prima gli uomini ma la paura di essere contaminati, molto spesso si traduce in violenza, sia verso i figli sia verso la moglie che, quando arrivano, vorrebbero respirare un po’ di quell’aria tutta nuova”. Desiderio destinato a rimanere tale: “la maggior parte dei migranti arriva da aree rurali, contadine, prima di emigrare le donne e i bambini vivevano in famiglie allargate, perciò, quando raggiungono il marito in Italia e si ritrovano in case vuote e silenziose, accanto a un uomo che conoscono appena, perdono l’orientamento e molto spesso finiscono per cadere in depressione”.

In realtà non è depressione bensì una difficoltà “a stare al mondo, a essere visibili, in relazione con gli altri”, puntualizza la dottoressa Gancia. D’altra parte, secondo il Centro di psichiatria transculturale e delle migrazioni G. Devereux dell’Università di Bologna, gli stranieri sono un quarto dei pazienti che manifestano l’inizio di malattie psicologiche anche gravi, nonostante la popolazione di immigrati sia attorno al 9%. 

Perché dopo tanti anni ci si ritrova vicini ma si è stranieri l’uno all’altro, si è cambiati perché si sono incorporate nuove esperienze e conoscenze, non riconosciute da chi arriva. La famiglia appena arrivata continua, all’inizio, a muoversi e comportarsi nello spazio circostante “come se” fosse nel proprio paese, dimostrando un’enorme difficoltà a rappresentarsi il nuovo territorio e idealizzando il proprio paese. Al punto che, spiega Vallarino Gancia: “l’esperienza migratoria prima e il ricongiungimento familiare dopo, espongono gli individui alla riformulazione della propria identità, talvolta con esiti devastanti, fino al rischio della perdita delle stesse “basi sicure” (per utilizzare la nota espressione di J. Bowlby) con cui hanno costruito i loro universi mentali e i loro codici affettivi e che strutturano quanto si è soliti definire il Sé”.

Tanto più che “agli occhi di chi rimane in patria - spiega Maddalena Pompili, anche lei psicologa e psicoterapeuta al Mamre -, chi è partito non ha solo il dovere di mandare i soldi a casa ma ha anche il compito di portare a termine un progetto, un’aspettativa che riguarda un nucleo più ampio”. Ed è proprio quest’investitura a mandare tutto in crisi: “per anni i migranti lasciano intendere che tutto funziona, che la vita è migliore, che partire è stata la scelta giusta. Quando, però, i familiari arrivano e la realtà mostra un’altra faccia rispetto a quella descritta, allora esplodono i conflitti”. 

Conflitti genitori-figli

E le difficoltà disarmano tanto gli uni quanto gli altri: “un figlio che cresce lontano dai genitori riceve i soldi ma non ha idea dei sacrifici fatti dai genitori per metterli da parte, è fiero del posto che lo aspetta. Quando arrivano in Italia non sempre apprezzano quello che scoprono e non c’è niente di più devastante, per un genitore, che non vedersi riconosciuto come tale”, conferma Marcia Beatriz Hadad.    

Per non parlare dei minori che dopo anni e anni vissuti come italiani, frequentando le scuole, si ritrovano, compiuti i 18 anni, improvvisamente stranieri alle prese con il permesso di soggiorno. In questo periodo il Parlamento sta discutendo lo ius soli in forma lieve, ovvero la possibilità di acquisire la cittadinanza ai bambini nati in Italia, anche se da genitori stranieri. Al momento, però, vale lo iure sanguinis - si acquisisce solo per diritto di sangue e solo se nati nel nostro Paese da almeno un genitore italiano - e la quotidianità ancora racconta di ricongiungimenti di familiari che si ritrovano ad essere stranieri, anche sotto lo stesso tetto, anche tra di loro. Diversamente da quello che accade a Dheepan, dove il viaggio unisce chi si era ritrovato spaiato ed è bello pensare che l'altra faccia di questa medaglia racconti questa storia. 

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